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Il Foglio sportivo - storie di storie

A che serve perdere

Mauro Berruto

È parte naturale, fisiologica, necessaria del percorso di apprendimento e miglioramento. Due libri per capire cosa vuol dire essere sconfitti nello sport

Lo sport insegna, soprattutto nei momenti complicati, che perdere è parte naturale, fisiologica, necessaria del percorso di apprendimento e miglioramento. Verrebbe da estremizzare: lo sport è utile soprattutto perché insegna a perdere e a fare i conti con la necessità di analizzare i motivi di una sconfitta, capire cosa potevi fare meglio tu, cosa hanno fatto meglio i tuoi avversari, razionalizzare quali siano i punti di forza, ma anche i margini di miglioramento. Ve lo assicuro: tutto questo lavoro, quando si vince, lo si fa molto meno. Perdere, dunque, è necessario per poter vincere la volta successiva o almeno per prepararsi a farlo. Non entro in quella che sarebbe una facile metafora rispetto al contesto che stiamo vivendo, mi limito a consigliare due letture che ci possono in qualche modo orientare in questa ricerca di senso in cui siamo, di nuovo, precipitati. 

 

Il primo libro, oltre ad essere ben scritto, mi suscita molto simpatia, perché il suo autore, Giorgio Barbareschi, è un ex-pallavolista che ho incrociato tante volte, da avversario, sui campi di B1, A2 e A1. Il sito della Lega Pallavolo, ricorda che i compagni di squadra lo chiamavano “il guerriero” e che è laureato in economia e commercio. Sul fatto che sui campi fosse un guerriero, beh posso confermare, ma non sapevo della sua passione per la scrittura, così evidente in: Giorgio Barbareschi, Bisogna saper perdere. Le dieci più incredibili, epiche e devastanti sconfitte della storia dello sport (Ultra sport, 2020). Dieci grandi sconfitte in dieci sport diversi che, come Flavio Tranquillo sostiene nell’introduzione, contribuiscono a “stimolare la riflessione su un tabù culturale”. Già, quanto spesso vediamo comportamenti dissennati di fronte alla sconfitta, magari per un punto, per un decimo di secondo, per un centimetro soltanto. Barbareschi raccoglie alcune storie note, altre decisamente meno, ma che hanno un paio di comuni denominatori: il dolore e il fatto di avere molto a che fare con gente che (prima o dopo) ha vinto tantissimo. Leggetela, questa sequenza di terribili sconfitte, dentro alle due citazioni che Barbareschi, pallavolista, concede con fair-play a due cestisti e che sono come una parentesi di apertura: “Non puoi vincere senza prima aver imparato a perdere” (Kareem Abdul-Jabbar) e di chiusura: “Posso accettare la sconfitta. Tutti falliscono in qualcosa. Ma non posso accettare di rinunciare a provarci” (Michael Jordan).

 

Il secondo libro che ci porta a confrontarci con il tabù della sconfitta è di Emiliano Poddi, Le vittorie imperfette (Feltrinelli, 2016). Cito questo libro straordinario, potentissimo, scritto meravigliosamente bene perché è un approfondimento verticale di una delle dieci sconfitte raccontate da Barbareschi: la finale olimpica di basket ai Giochi di Monaco 1972, con quella medaglia d’oro che in tre secondi passò dal collò dei cestisti americani a quelli sovietici, trasformando vincitori in vinti e vinti in vincitori. Emiliano Poddi, ex-cestista il cui talento non so definire, ma che so con certezza avere un talento assoluto da narratore, racconta una storia vera come se fosse un romanzo, insieme ai protagonisti Kevin Joyce e Saša Belov, i due numeri 14 di Usa e Urss che nei tre secondi più lunghi della storia del basket di trovarono “uno di fronte all’altro, poco distanti tra loro ma separati dalla riga di fondo campo. Una specie di confine geografico, la linea di demarcazione fra felicità e infelicità.” 

 

Duecentonovanta pagine di epica sportiva, ma con Ettore e Achille lì, in carne, ossa e palla a spicchi.

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