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il foglio sportivo

Le proteste social degli sportivi e le nostre amnesie

Roberto Perrone

Il diritto di esprimere la propria idea con hashtag che dimenticheremo, meglio se è quella “giusta”

Nell’iconografia ufficiale dei gesti di protesta, dei messaggi lanciati attraverso lo sport e/o da sportivi, l’ultimo in ordine di tempo a colpirci è stato quello di Marcus Thuram, inginocchiato su un prato tedesco per condannare l’omicidio di George Floyd soffocato in modo brutale da un poliziotto a Minneapolis, l’ennesimo afroamericano vittima della violenza delle forze dell’ordine negli Stati Uniti. La foto del giovane Thuram, particolarmente sensibile, come ragazzo di colore e figlio di un calciatore impegnato contro il razzismo fin da quando non ne parlavamo così tanto, è stata accostata a quelle di Tommie Smith e John Carlos con i pugni chiusi nei guanti neri sul podio della finale dei 200 metri a Città del Messico 1968; di Muhammad Ali che straccia (1967) la cartolina-precetto e si rifiuta di andare in Vietnam perché “nessun vietcong mi ha chiamato negro”; soprattutto di Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, a cui spetta il copyright del ginocchio contro. Era il 26 agosto del 2016, quando lo inventò, finendo ai margini del football americano.

 

A Thuram, malgrado il deferimento (o quel che è in Bundesliga), non verrà torto un capello. Un atto dovuto. Detto in Italia, poi si finisce male, in Germania è diverso. Altre squadre hanno coinvolto l’intera rosa nella protesta, ma nel chiuso dei loro centri di allenamento. Il messaggio antirazzista, tra gente inginocchiata, frasi e veli neri, è divampato.

 

Protestare è un diritto e sui motivi non di discute.

 

Tutto questo ci suggerisce, però, due osservazioni. La prima. Lanciare un messaggio è sacrosanto. Però il messaggio, poi, dovrebbe restare. Non dubitiamo della buona fede nel di chi ripete quel gesto, ma quello che oggi pare irrinunciabile, domani sparirà come uno dei tanti post. Domani ci dimenticheremo di tutto e nulla sarà cambiato. Non sosteniamo l’inutilità della protesta, andiamo oltre, vorremmo che la protesta proseguisse anche quando un uomo di colore non viene ucciso dalla polizia o il “cialtrone in chief” non ne spara una delle sue. Perché l’impegno/sdegno iconico/mediatico spesso resta fine a se stesso, sguscia dalla rete. Due anni fa, milioni di persone, famosi e meno famosi, si tiravano un secchio d’acqua in testa per una causa. Risultati di un sondaggio amatoriale: su tre persone interpellate e richieste di ricordare per quale causa si rischiasse il raffreddore, nessuna ha saputo rispondere. Una ha azzardato “per una malattia”. Era la Sla. E, per la cronaca, vennero raccolti molti denari per la ricerca. Applausi. Però la sensibilizzazione su una terribile piaga dei nostri tempi, è svanito. L’impegno quotidiano, la coltivazione della coscienza, questo escluderebbe la routine del gesto una tantum, del gesto perché ci crediamo, certamente, ma che fa anche tanto figo, tanto politicamente corretto, tanto “sto dalla parte giusta e ve lo mostro”.

 

E qui veniamo all’altra questione. Lo sport come veicolo di “protesta contro” o di “sostegno a”, è un ormai un fenomeno diffuso, importante. Ma chi decide se la causa ha valore? A Milorad Cavic, nuotatore nato negli Stati Uniti ma serbo per origine, convinzione e bandiera, campione del mondo e vice-campione olimpico dei 100 farfalla, non è stata perdonata la maglietta “Kosovo è Serbia”, con cui si presentò sul podio degli Europei di Eindhoven nel 2008. Qualche mese fa i calciatori turchi fecero il saluto militare, a sostegno del presidente Erdogan. L’indignazione li travolse. Ah, a proposito, anche l’indignazione, se non è costante, evapora. In molti chiesero di non giocare la finale di Champions a Istanbul. Ora forse ci faranno pure le semifinali. Qualcuno dirà: non si possono paragonare le motivazioni che stanno dietro i due gesti. Ma chi lo stabilisce? L’arbitro, la Var, un giudice a Zurigo, l’opinione pubblica, la storia? Lastricata di trappole è la strada verso la definizione di giusto e ingiusto. La libertà di espressione, infine, non vale solo per i grandi ideali, ma anche per le ideologie più detestabili. O no? A scanso di equivoci, comunque, mi inginocchio.

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