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il foglio sportivo - il ritratto di bonanza

Un calcio alla modernità

Alessandro Bonan

Per fortuna esiste ancora la memoria che è ben diversa dalla nostalgia, perché è base della nostra cultura e non soltanto evocazione languida

La modernità di questi tempi è andata in crisi. Non sappiamo nemmeno più cosa significhi. Siamo tornati antichi all’improvviso, e il fatto di essere collegati tra di noi con la tecnologia significa poco o nulla. Il mondo si è fermato in un momento, parafrasando quella bellissima canzone che voleva raccontare un’altra storia. E in questo blocco totale abbiamo completamente perduto la bussola del presente. Il presente oggi non esiste, completamente consegnato nelle mani della speranza che però è solo un sentimento. Il presente si conclude in quei laboratori dove si sta cercando di trovare un avversario più forte del virus e in tutti gli ospedali dove esistono medici e infermieri che rischiano la vita per noi. Il presente è lì, accanto alle nostre teste, ma lo spingiamo lontano, chiusi in casa, con la paura addosso, ascoltando le campane a morto delle chiese. È vero sì, guardiamo la tv, dove scopriamo il dolore e l’impegno di questi uomini superiori dentro corsie affollate, reparti congestionati, tra mascherine e respiratori, camici bianchi e segni della stanchezza stampati sul viso come tatuaggi drammatici. Però ci teniamo a distanza da loro, speranzosi di non doverli mai conoscere da vicino. E non la si chiami vigliaccheria per carità, è semplice e comprensibile umanità. In questo difficile isolamento abbiamo cominciato a credere a qualsiasi cosa, disorientati dalla enorme quantità di notizie che provengono da tutto il mondo, alcune vere, altre che lo sembrano ancora di più, per come ci fanno illudere, per la maniera in cui sono state costruite, dette, adoperate come tesi da autorevoli esponenti del paese, ma che vere invece non lo sono per nulla. E sperduti in un deserto senza punti cardinali, nessuno di noi, se non i medici e gli scienziati – perché i politici insomma, si fa un po’ fatica a metterceli dentro –, può definirsi moderno, e cioè perfettamente calato, in modo più o meno critico, nello spirito di questo tempo. Probabilmente aveva ragione Baudelaire, che della parola modernità fu l’inventore. A lui, poeta decadente, quella parola servì per indicare “il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”. Oltre che un mirabile pensiero, lo prendiamo come un auspicio. E lo giriamo al mondo del calcio, impegnato come sempre a litigare, come se il “transitorio” rappresentasse l’invariabile in una sintesi sciocca e, in quanto tale, inaccettabile.

 

Ma per fortuna esiste ancora la memoria che è ben diversa dalla nostalgia, perché è base della nostra cultura e non soltanto evocazione languida. Per cui ammirare ancora, dopo che è già successo mille volte, che so, una finta di Maradona, significa guardare al calcio per “quella metà dell’arte eterna ed immutabile.” Perché a pensarci bene, viene da farci una domanda facile: di questa modernità, noi piccoli uomini abbandonati in casa, di cosa ce ne facciamo?

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