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Dalle coppe europee ai ragazzini in Usa. La vita per il basket di Boniciolli

Giorgio Burreddu

Il valore dell’insegnamento e dei rapporti umani, le high school americane e gli anni in Italia. “La paura del Covid-19 ha messo lo sport sotto a una campana di vetro”

“Pensavamo di essere invincibili, inattaccabili. Ci siamo riscoperti fragili”. Matteo Boniciolli se n’è accorto telefonando a suo figlio Francesco, che sta dall’altra parte dell’Oceano, negli States, per giocare a pallacanestro, adesso che il mondo sembra essere diventato improvvisamente lontano. “Là la vita è ancora normale, non è cambiato nulla, ma è chiaro che guardano al nostro paese con una certa attenzione”. È appena tornato dall’America anche lui dopo mesi vissuti intensamente. Usciva dall’esperienza in Serie A1 a Pesaro, una delle città del basket italiano, quando ha ricevuto una telefonata. “Era David Maravilla – racconta al Foglio Sportivo – sta a capo di un progetto di una prep-school. Mi dice: ‘Ho un allenatore molto bravo ma giovane, perché non vieni a darci una mano?’. Sono partito”. Nelle prep si tengono a bagno per un anno i giovani atleti: quelli che dopo i quattro anni di superiori non sono riusciti a prendere la via dell’Ncaa, ma hanno potenzialità da vendere. “Si è trattato di mettere insieme moltissimi aspetti, il ragazzo bianco della famiglia bene di Boston e quello dei sobborghi di Chicago, il figlio di un allenatore di football e quello di un pompiere di un quartiere difficile. Ti accorgi che lì le famiglie e l’ambiente condizionano clamorosamente anche il modo di relazionarsi”. E lo sport, come sempre, tiene insieme tutto. Ma non ai tempi del virus. Che, dice Boniciolli, “sta facendo emergere tutte le nostre paure e una serie di limiti”. Il calcio, il basket, tutto lo sport. “Con gli allenatori ne parliamo, certo. Ci sentiamo, ne discutiamo. La quotidianità è complessa da sopportare, da gestire. I giocatori sono cavalli di razza: si allenano per correre, per giocare, per la competizione. Allenarsi tanto per farlo è difficile”.

 

C’è da fare i conti con la paura. A Varese, per esempio, Jason Clark è scappato, con l’idea di fuggire dal contagio. Il calendario della regular season è un enigma anche se il basket non fa lo stesso rumore del calcio. “Pensare che un club di calcio sia centrale dentro questa storia mi sembra una visione limitata, imbarazzante. È come guardare il mondo dal buco della serratura”. E poi c’è il problema delle porte chiuse. “Il pubblico è fondamentale. Soprattutto nel basket. Abbiamo visto Milano-Real Madrid senza gente al Forum. Il basket è sempre basket, giochi lo stesso. Ma l’interazione con le persone, il pathos viene meno. È una sorta di esperimento fatto sotto una campana di vetro”. Lo capisce bene lui, che del calore della gente si è nutrito sempre. Anche per questo l’esperienza negli Usa gli ha fatto bene. “I nostri giovani il basket lo conoscono come sistema. Negli Usa invece sanno i fondamentali, la confidenza con la palla, il tiro, il palleggio. Mi sono dedicato all’insegnamento dei sistemi di gioco”. L’America del basket non è solo un altro pianeta, è un mondo vivido e funzionante, che all’interno di una realtà competitiva riesce a coltivare il merito. Infatti, dice Boniciolli, “dal punto di vista delle strutture è tutto straordinario. Le condizioni di lavoro lo sono. E quindi emerge anche il valore degli allenatori. Si investe per migliorare il prodotto tecnico, si produce perché questo è meglio per tutti e se funziona vai avanti”. La “prep” di Boniciolli si chiama Don Bosco, “nell’Indiana, lo stato del basket”.

 

Il metodo Boniciolli è servito. Per la prima volta nella sua giovane storia la Don Bosco è arrivata a vincere otto partite della stagione regolare, ha giocato un torneo nazionale a Springfield con le migliori sedici d’America e adesso punta a finire nelle prime otto (dalla fine di marzo). Memorabile il successo 91-50 contro la Sunrise pre-school, settima nel ranking nazionale. Illustri coach prima di lui hanno vissuto (e vivono) esperienze negli Usa: Ettore Messina con gli Spurs, ma anche Sergio Scariolo, assistant a Toronto.

 

Quella di Boniciolli è un’esperienza laterale e per certi versi più profonda. “Al di là della passione, delle competenze, quello che colpisce è il percorso di crescita che viene costruito. Dal punto di vista emozionale è stato forte, per un evento di ragazzi di 18-19 anni arrivavano anche cinquemila persone. Agli allenamenti venivano sempre cinque, sei scout dell’Ncaa. Il sistema ha messo in piedi una macchina per i giovani giocatori per farli entrare nel professionismo preparati, pronti”. Triestino, liceo classico, allievo di Franco Serpa, ammiratore di Elsa Morante (che da ragazzo conobbe), Boniciolli ha una vocazione all’insegnamento che arriva da lontano. “Quella dei miei tempi era una pallacanestro di allenatori che insegnavano a giocare agli italiani grandi e grossi, una pallacanestro di relazioni umane, la mia”. Un giorno era al tavolino di un bar quando gli si fece incontro un dirigente della Ginnastica Triestina. All’epoca Boniciolli era già un coach da Eurolega, aveva riportato Udine in A, sfiorato lo scudetto, vinto una coppa europea, provato l’ebbrezza di un esonero dopo un derby di Bologna vinto; aveva allenato leggende come Charlie Smith e Keith Langford e imparato che la pallacanestro sa essere così struggente da romperti l’anima. Ho bisogno di qualche consiglio, cominciò a dirgli quel tizio, la mia squadra di Allievi non ha più un allenatore e ci sono dei ragazzi da tirare su. Boniciolli lo guardò negli occhi: “Li alleno io”. C’è solo un modo di fare sport: vivendolo. Non conta la grandezza dello stadio, quanti vengono a vederti, i soldi che metti in tasca. Conta quanto ci credi. Di questa dimensione propedeutica Boniciolli si è sempre occupato. Lo ha fatto anche in America. “Ho 57 anni e so come va il mondo, o almeno mi sembra di saperlo. Anche se alla mia età mai avrei pensato di vivere questa percezione di una limitazione forte della libertà personale. Come tutti, la vivo con un forte disagio”. E allora guarda a quello che di buono c’è: “Grazie allo sport ho fatto esperienza di vita incredibili. E questa negli Usa la classifico così: trovarmi a guidare il piccolo bus come coach Carter, quello del film, con i ragazzini che ascoltano rap a tutto volume, i bassi che pompano, e si viaggia lungo queste strade, è stato divertente. Mi sento rigenerato, ringiovanito. Ci voleva un periodo di basket e basta”. Si è lamentato spesso di essere considerato un allenatore fuori: fuori dal coro, dal consueto, dalle tipologie classiciste; fuori dalle banalità. Le sue conferenze stampa sono diventate un cult. “Invece mi piacerebbe essere riconosciuto per la pallacanestro, per il modo di farla”. Ha assorbito saggezza dal maestro dei maestri, Nikolic. Ha affiancato Tanjevic, ha dato a Zorzi una dimensione nuova (senior assistant) e con lui ha vinto una coppa memorabile ad Avellino. Le sue cronache sono avventure: i venti che scuotevano la sua casetta quando allenava in Belgio, a Ostenda; i giocatori da romanzo quando allenava a Messina, o il rischio di restarci secco in Kazakistan per una polmonite, dove ha vinto campionati e coppe. L’America gli ha ridato una dimensione di normalità. O, più semplicemente, come dice Phil Jackson, di condivisione umana.

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