il foglio sportivo
Gli occhi di Duckadam sul regime di Ceausescu
I quattro rigori parati al Barcellona nella finale di Coppa Campioni del 1986, la gloria e l'eclissi del portiere rumeno che scrisse la storia della Steaua Bucarest
Il calcio, in fondo, “è tutta una questione di occhi”. Almeno se si indossa una maglietta diversa dagli altri e la maggior parte del tempo di gioco si sta più o meno fermi a vederli correre. Fare il portiere, per lui, è sempre stato questo: un gioco di sguardi. Per Helmuth Duckadam l’essere portiere era una necessità: “Avrei voluto essere un gran numero 10. Ma ero troppo pigro per correre”. E così invece dei piedi allenò le mani. Soprattutto il colpo d’occhio, quello che in molti chiamano istinto, ma che lui aveva sempre chiamato intuizione, ossia “la capacità di immaginare prima degli altri l’evoluzione dell’azione e, soprattutto, la traiettoria del pallone”.
Duckadam ha occhi “furbi e intelligenti”, scriveva il drammaturgo Eugène Ionesco. Occhi grandi, tanto quanto le sue mani e i suoi baffi. Occhi che si posavano su quelli degli avversari per capirne e sondarne le intenzioni, che si muovevano curiosi a osservare tutto ciò che succedeva dentro e fuori l’area di rigore, lo spazio nel quale le sue mani si trasformavano nell’ultimo baluardo tra vittoria e sconfitta. Gli occhi di Duckadam erano sempre velati di un’agitata malinconia, “quella tipica dei transilvani”, notò sempre Ionesco. Si riempirono di gioia e incredulità in una notte spagnola. Quella del 7 maggio 1986. Quella della finale di Coppa dei Campioni tra Steaua Bucarest e Barcellona.
Doveva essere una passeggiata per i catalani, ché il tedesco Bernd Schuster era in una forma eccezionale e da solo valeva, in dollari, la formazione rumena. I blaugrana non potevano non vincere. “La formazione di Venables gioca un calcio offensivo e raffinato che ha la possibilità di sbarazzarsi facilmente dell’arrocco difensivo dei rumeni”, scrisse il Mundo Deportivo alla vigilia. Non andò così. La difesa bloccò l’attacco e la partita si prolungò sino ai rigori. Fu in quel momento che tutto si trasformò. La noia che aveva attanagliato i sessantamila spettatori allo stadio Ramón Sánchez Pizjuán di Siviglia divenne incredulità. Il calcio non fu più una faccenda di piedi, divenne “una questione di occhi”. Quelli che guidarono i movimenti e le mani di Duckadam. Quelli che lo spinsero a tuffarsi per tre volte sulla destra per agguantare i tiri di Alexanko, Pedraza e Pichi Alonso e a sinistra per fermare quello di Alonso Peña. Quattro balzi. E un grido che sanciva ciò che si pensava impossibile: Steaua campione d’Europa.
Al termine di quella finale Duckadam non fu più uno sconosciuto portiere transilvano. Divenne un mito, un salvatore della patria. Almeno per una nutrita parte del tifo rumeno. Per il regime di Nicolae Ceaușescu, invece, l’estremo difensore di Semlac, quattromila anime al confine con l’Ungheria, rimase quello che era sempre stato: qualcuno di cui diffidare. Troppo mitteleuropeo per indole, troppo autonomo per inclinazione, troppo tedesco d’origini per trasformarlo davvero in Eroul de la Sevilla, in una bandiera della Romania socialista. Fu omaggiato ma non incensato, ringraziato e applaudito, eppure non si trasformò in un vessillo da esibire.
Non che Duckadam si fosse mai presentato come oppositore politico del regime: giocava pur sempre nella squadra dell’esercito. Eppure si era opposto a un paio di combine che avevano organizzato alcuni pezzi grossi del regime. Cose da poco, una multa e via. Si era limitato a stare nell’ombra, senza mai prestarsi alla propaganda. Si era sempre tenuto distante dai “lustrini” che il dittatore aveva attaccato addosso a molti sportivi rumeni. E lo aveva fatto perché oltre al calcio, anche la vita, per lui, è sempre stata una questione di occhi. E i suoi avevano visto troppi pestaggi e sparizioni per prestare il suo volto.
Così quando pochi mesi dopo la vittoria della Coppa dei Campioni Duckadam sparì dalle scene del calcio (non solo) rumeno, ecco che iniziarono a serpeggiare leggende. Si narrava che gli avessero spezzato le mani per qualche frase sibillina su Ceaușescu; che gli avessero sparato in una battuta di caccia; che gli avessero rotto le braccia quelli della Securitate perché non volle dare al figlio del dittatore la Mercedes che il presidente del Real Madrid gli aveva regalato dopo aver battuto gli odiati blaugrana. Nulla di vero, dirà lui stesso. Solo una trombosi a un braccio. “E sono stato pure fortunato. Potevano amputarmelo”. Il regime lo fece fuori in altro modo: licenziato dall’esercito e messo a mezzo servizio, e senza pensione integrativa, tra le fila della polizia di confine.