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La Spagna vince i Mondiali di basket. Ma non sparate sugli Usa

Nicola Imberti

Non c'è nulla di clamoroso nell'eliminazione degli Stati Uniti contro la Francia ai quarti. Semplicemente non erano i più forti. Hanno vinto i ragazzi di Sergio Scariolo. Parla Alessandro Mamoli

La Spagna di Sergio Scariolo ha battuto l'Argentina nella finale del Mondiale di basket 2019. Trascinati dai 20 punti di Rickey Rubio e i 15 di Sergio Llull gli iberici hanno superato i sudamericani per 95-75.

 


 

Quando lo chiamiamo la partita tra Francia e Stati Uniti è finita da poco. I “mostri sacri” del basket sono fuori dal Mondiale. Eliminati ai quarti di finale dalla Nazionale transalpina. Sui siti italiani è già un florilegio di “clamoroso”. Ma Alessandro Mamoli, ex giocatore e commentatore di basket per Sky Sport, non è sorpreso, anzi: “Mi sarei stupito se fosse accaduto il contrario”. Perché la passione nello sport è tutto. Abbiamo sempre bisogno di eroi. Non possiamo farci niente. Ma poi il gioco, del basket così come del calcio, ha le sue regole. La più semplice, forse la prima, è che normalmente i più forti vincono. E a questi Mondiali (che si concluderanno domani con la finale tra Argentina e Spagna), gli Stati Uniti non erano i più forti.

 

“Prendiamo i giocatori in campo nella partita con la Francia – prosegue Mamoli – togliamo la carta di identità e ragioniamo solo sui ruoli dei singoli. Da un lato avevamo de Colo, un playmaker che gioca e vince finali di Eurolega, Gobert e Fournier che sono titolari in squadre Nba e sono abituati a giocare gare di playoff, più altri due tre giocatori Nba. È un gruppo che gioca assieme da anni. Si conoscono e sono cresciuti assieme. Dall’altra, con tutto il rispetto e salvo rare eccezioni come Walker e Mitchell, c’erano seconde e terze scelte. Senza contare che, a differenza della Francia, si sono ritrovati insieme per la prima volta a luglio. Se gli Stati Uniti avessero mandato non dico la prima, ma la loro seconda squadra, avrebbero vinto tutte le partite”. Insomma, la sconfitta non è certo il segnale che il basket americano ha iniziato il suo lento declino. Piuttosto il modo con cui la realtà mette in crisi le convinzioni di chi continua ad applicare l’equazione: americano più basket uguale imbattibile. Non è sempre così.

 

Per capirlo basterebbe ricordare, come fa Mamoli con una battuta, che oggi “la Svizzera ha due giocatori in Nba”. E quindi, “in una Nba molto più globalizzata, anche le Nazionali europee possono contare su quintetti più forti di qualche anno fa e il gap si è un po’ ridotto. Ma se poi non hai in campo giocatori abituati ad affrontare partite decisive da dentro o fuori, perdi”. Anche in questo caso, per carità, nessun automatismo. “Le partite bisogna giocarle. Non si può dare una valutazione complessiva, men che meno dello stato di un movimento nazionale, sulla base di un risultato che è il frutto di decine di fattori. L’Argentina, per esempio, ha giocato una delle migliori partite della sua storia ai Mondiali, un basket divino, e ha battuto la Serbia che era sicuramente più forte. Ma è stata un’impresa dell’Argentina”.

 

Impresa che non è riuscita, invece, all’Italia. Ma qui vale la regola aurea. “Belinelli – riprende Mamoli – è uno specialista che ha vissuto la sua carriera uscendo dalle panchine Nba. Gallinari è la seconda-terza opzione della sua squadra. Hackett, che tra tutti è quello che è cresciuto di più, gioca nel Cska, ha vinto l’Eurolega, ma non è certo la prima o seconda opzione. Lo stesso Datome è comunque un giocatore complementare nel suo club. Il punto è quale ruolo rivestono nelle squadre in cui giocano. Lo dico con un esempio senza voler essere offensivo: se sei uno specialista o un gregario e ti viene chiesto improvvisamente di essere il punto di riferimento, non è facile adattarsi in così poco tempo. Non a caso la Nazionale che è andata più vicina a fare un ottimo risultato è stata quella in cui giocavano Bargnani, che all’epoca era uno da venti punti a partita in Nba, e Gentile, che prima dell’infortunio e di tutti i guai che ha avuto, era uno dei migliori realizzatori europei. In quella gara con la Lituania (Europei, anno 2015, ndr), se il finale fosse stato gestito diversamente, non saremmo andati all’overtime e avremmo giocato la semifinale con la Serbia”.

 

Di certo a questi Mondiali era difficile aspettarsi molto di più dagli Azzurri. Il power ranking della Fiba ci metteva all’undicesimo posto, siamo arrivati decimi. Qualcosina in più avrebbero dovuto fare gli Stati Uniti che, nonostante tutto, erano al primo posto. Ma nemmeno a coach Gregg Popovich è riuscito il miracolo. “Ecco – riprende Mamoli – lì sì, forse si poteva fare meglio. Alcune carenze tecniche della squadra potevano e dovevano essere colmate da Popovich e Steve Kerr, ma non è successo. E comunque bisogna sempre ricordare che gli Stati Uniti vengono ai Mondiali e, per un mese, si adeguano alle nostre regole di gioco. Giocassimo noi con le loro regole, le loro misure, i loro tempi sono sicuro che faremmo più fatica”. Insomma alla fine è soprattutto una questione di particolari. E, anche se non è romantico, di solito il più forte vince.

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