foto LaPresse

La buona battaglia di Troy Deeney

Emmanuele Michela

Dal carcere alla finale di Fa Cup. Così l’attaccante del Watford a 31 anni si è rivelato uno dei nomi più decisivi del calcio inglese

Avrà anche un nome che ispira l’epica omerica, ma Troy Deeney è il prototipo di anti-eroe calcistico. 90 chili di gol e risposte ruspanti, quelle di un attaccante dalla faccia selvatica che segna il giusto e con costanza, e che, ancor di più, poco s’intona con la narrativa sportiva contemporanea che vuole modelli ed esempi prima che uomini veri. L’attaccante del Watford, a 31 anni, si è rivelato uno dei nomi più decisivi del calcio inglese di quest’anno, dove gli Hornets hanno saputo fare punti in campionato lontano dalla zona retrocessione per concentrarsi sulla meraviglia competitiva per eccellenza, l’FA Cup. Così, dopo la gustosa semifinale giocata contro i Wolves (altra rivelazione della Premier 2018-19, superati solo ai tempi supplementari), i ragazzi di Javi Garcia domenica saranno in campo a Wembley, contro il Manchester City. Che certo parte favorito, ma sa sulla sua pelle cosa voglia dire dare per scontato l’esito di una finale come questa. Basta pensare a quando, nel 2013, riuscirono a perdere 1-0 contro il Wigan, che in pieno recupero punì i Citizens per poi, appena tre giorni dopo, perdere in campionato contro l’Arsenal e retrocedere. Deeney è il quarto miglior marcatore di sempre della storia del Watford (davanti c’è un certo Luther Blissett), e a Vicarage Road pare abbia trovato la casa ideale, se è vero che nel 2016 il Leicester neo campione d’Inghilterra lo voleva come riserva di Vardy. Lui rifiutò e firmò un nuovo contratto con il club dove gioca dal 2010, quando vi approdò per allontanarsi definitivamente da un’adolescenza complicata.

 

Riavvolgiamo il nastro: Deeney è cresciuto a Chelmsey Wood, estrema periferia di Birmingham, non il posto più tranquillo dove diventare adulti, lui e i suoi due fratelli. Suo padre si chiamava Paul Anthony Burke, entrava e usciva di prigione quando Troy era ragazzino. Con la moglie si lasciò che il ragazzo aveva appena 11 anni, ma i problemi non finirono lì. Troy, abbandonata la scuola a 14 anni, non si trovò più addosso il cognome del padre, bensì quello della madre. Entrambi i genitori erano d’accordo nel togliergli dalle spalle un nome tanto pesante in quel quartiere, dove il ragazzo era destinato a crescere e vivere.

 

Eppure con quel padre Troy ha tenuto un legame straordinario. “Forse sembrerà strano ad alcune persone se dico di aver ammirato la sua morale”, ha raccontato nel 2015 al Daily Mail. “Mi ha insegnato molto sulla responsabilità. Non dare mai la colpa a nessun altro. Se commetti un errore, è un tuo errore”. E il calcio? È stato un innamoramento tardivo, non prima dell’adolescenza. In casa era faccenda di Ellis, il fratello minore, che adesso gioca al Telford United (in National League). A 15 anni Troy fu pure chiamato a fare un provino all’Aston Villa, dove però lui non si presentò. Meglio le fidanzate, era il suo mood. Ma spesso le circostanze seguono giri tortuosi: passò appena un anno e il ragazzo, che già da un pezzo era diventato muratore, una mattina andò a giocare una match (pare, per altro, alticcio) per il club amatoriale con cui era tesserato. Vinsero 11-4, lui fece 7 gol, e ebbe la fortuna di essere notato sugli spalti da un osservatore del Walsall, club della League Two. Qui esordì nel 2006, per poi collezionare in quattro anni un centinaio di presenze, 27 reti, una promozione in League One e una chiamata del Watford, all’epoca in Championship.

 

Suo padre morì nel 2012 per un tumore. Pochi giorni dopo, la situazione si fece ancora più drammatica per Deeney, condannato per una rissa che lo aveva visto protagonista in un club di Birmingham qualche mese prima. Troy fu portato in carcere: di dieci mesi di pena ne scontò tre, perché nel frattempo si era pentito. Poteva essere la fine della sua carriera, invece appena dieci giorni dopo era già in campo col suo Watford, con alla caviglia un dispositivo elettronico. “Andare in prigione è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata”, è la sua convinzione, oggi. “Nei due anni precedenti credevo di essere un uomo perché uscivo a bere e offrivo a tutti. Ora sono molto più felice. Mi sveglio al mattino con la preoccupazione di dover pagare l’affitto di mia madre”. Cambi di prospettiva decisivi, che hanno reso forte un calciatore che di stagione in stagione si è fatto sempre più agguerrito, che ha saputo tramutare la sua cattiveria in carattere, gestendo al meglio un rapporto con se stesso mai semplice. Deeney non si fa problemi a dire che, per “guardare” la sua rabbia, si fa seguire da uno psicologo, né che per rispondere alle provocazioni di uno zio (che al secondo matrimonio della madre gli dava del “grasso”) si è messo a dieta, appena pochi mesi fa, perdendo 14 chili. Ma quello per cui si è fatto apprezzare sono anche alcune dichiarazioni che, a marzo, ha rilasciato alla Bbc. Un’intervista a tutto campo in cui, per prima cosa, ha puntato il dito contro l’urgenza del nostro mondo mediatico di trasformare in simboli ed esempi qualsiasi calciatore popolare: “Il ruolo di modello deve essere in casa, anzitutto. Siamo tutti umani, e la gente spesso compie errori: stiamo dando enfasi al fatto che essere famosi è più importante che essere brave persone. Se i miei figli guardano un uomo più grande e migliore di me, allora non sono io che faccio il mio lavoro. Mio padre non era calciatore, non era nemmeno lontanamente ciò che una persona media considera un modello, ma ai miei occhi era Superman”. Poi, riecco i soldi. Sono importanti per te? “No, ma lo erano. Non voglio mentire, ma dove sono cresciuto guardavamo solo a calciatori e spacciatori, era tutto ciò che conoscevamo”. Per un giovane uscito da un quartiere così (“non sono certo cresciuto in una casa da classe media”), la droga poteva essere davvero la sua fine se non ci fosse stato il calcio. “Gli spacciatori hanno macchine belle, scarpe pulite, hanno i vestiti… E tutti i calciatori che venivano dalla mia zona hanno fatto tutto per poi andarsene. Non sarebbe stato il mio caso, non guardavo agli spacciatori pensando “aspiro a essere così”. Non ho mai toccato droga nella mia vita, sto solo parlando dal punto di vista di un ragazzo che vuole puntare in alto. Ho sempre avuto l’impressione che il denaro comprasse la felicità, e i soldi risolvessero tutto. Ma è la più grande bugia che mi sia mai stata raccontata”. Deeney, che da ragazzo ha fatto il muratore sognando di fare il pompiere, che ha toccato il fondo di sé in carcere e oggi ha una fondazione che aiuta i bambini con disabilità nell’apprendimento, domenica raggiungerà l’apice della sua carriera sportiva guidando il Watford in finale di FA Cup. “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”, recita il tatuaggio che porta sul suo avambraccio sinistro. Sull’altro, ha inciso una lapide con il nome del padre.

Di più su questi argomenti: