A mani nude sulla roccia. Cosa cercano gli scalatori in free solo

Dal tedesco Paul Preuss nell’Ottocento all’Oscar 2019 per il documentario su Alex Honnold. Chi sono gli scalatori che si arrampicano senza corde, e perché lo fanno (l’adrenalina non c’entra)

Stefania Nicolich

La nostra percezione delle montagne è cambiata notevolmente nel tempo: siamo passati dal vederle come ostacoli da evitare e ammassi di roccia ingombranti ad attribuire loro significati ed emozioni umane. Belle, paurose, sublimi sono gli aggettivi che usiamo. Ma siamo noi che sfidiamo noi stessi, e guardiamo le montagne come un avversario da sconfiggere e da conquistare.

 

La prima spedizione “ufficiale” in montagna è avvenuta nel 1492. Carlo VIII, re di Francia, ordinò a uno dei suoi servi, Antoine de Ville, di scalare la “montagna inaccessibile”, il Mont Aiguille, a Grenoble. Poi, per quasi 400 anni non c’è stato più interesse alpinistico. Solo intorno alla metà del Settecento le persone incominciarono ad andare in montagna non soltanto per necessità.

 

Vivere la montagna è un qualcosa che è cambiato, si è evoluto, così come si sono evolute le tecniche di arrampicata. Un tempo si conquistava la vetta per la via più facile e logica. Poi si è capito che non è importante solo arrivare in vetta, ma lo è ancora di più come ci si arriva, con quale tipo di tecnica ed etica. I limiti sembrano sfuggire continuamente, ma come narra Jimmy Chin in “Free Solo”, documentario premiato con l’Oscar, “se continui a spingere il limite, finirai per trovarlo”. Le prime conquiste delle cime erano fatte grazie ad attrezzature artificiali: chiodi, bastoni, corde, picchetti, staffe che aiutavano la progressione. Si è poi passati a una versione più pura, l’arrampicata libera, che fa affidamento alle mani e ai piedi per la progressione e l’uso della corda solo come mezzo di sicurezza in caso di caduta. Così si cominciò a “liberare” tutte le vie percorse in precedenza.

 

 

Ma c’è un atto ancora più puro, seguito da alcuni come l’alpinista tedesco Paul Preuss (1838-1908). È l’arrampicata senza nessun supporto, nemmeno la corda, quella che oggi si chiama free solo. Preuss è considerato il padre dell’arrampicata sportiva, molto rigido nella sua percezione della purezza del gesto, chiamava “imbrogli” le attrezzature artificiali, anche quelle usate soltanto per sicurezza.

 

 

Ha scritto quelle che secondo lui sono le sei regole dello scalatore: uno scalatore non deve essere allo stesso livello delle difficoltà dell’arrampicata ma a un livello superiore; la difficoltà standard che lo scalatore può affrontare in sicurezza in discesa deve rappresentare l’estremo limite che affronta in salita (secondo lui bisogna salire una via solo se si riesce anche a discenderla senza nessun supporto di corde, cosa che oggi invece accade); l’impiego di mezzi artificiali è giustificato solo in caso di pericolo incombente; il chiodo da roccia è un rimedio di emergenza, non il fondamento di un sistema di arrampicata; la corda può essere utilizzata come “facilitazione”, ma non come mezzo per effettuare la scalata (quindi niente pendoli); la sicurezza deriva da una corretta valutazione di quello che si è capaci e quello che si desidera fare. Ricorda quello che diceva Angelo Dibona: “Un vero arrampicatore deve sapere dove finisce il godimento di una salita e dove incomincia un insano eccitamento nervoso”. Guida alpina di origine ampezzana, insieme a Preuss Dibona è stato uno dei primi a scalare in free solo. Ha vissuto tra il 1879 e il 1956, ed è considerato uno dei migliori arrampicatori del Ventesimo secolo. Oltre settanta vie portano il suo nome, ha tracciato nuove scalate in tutto l’arco alpino fino al Delfinato francese. Aprì l’ultima via all’età di 65 anni sulla parete nord ovest della Punta di Michele nel gruppo del Cristallo, a Cortina. Tutte le sue vie richiedono una preparazione tecnica e fisica da non sottovalutare. Molti che le hanno ripercorse hanno dovuto aggiungere chiodi, come nell’ardito campanile sul Cristallo che porta il suo nome, o sul “masso squarciato”, un tetto spaccato da una fessura che si scaglia nel vuoto per parecchi metri nella parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo nel Brenta, dove proprio Preuss che l’ha ripetuta ci ha messo due ore per superare quel passaggio. In tutta la sua vita Dibona ha usato solo quindici chiod, e solo per sicurezza: sei sulla Laliderer, tre chiodi e una staffa sullo spigolo dell’Ödstein, uno sul croz dell’Altissimo e uno sulla Cima Una. A differenza di Preuss non morì durante una scalata ma all’età di 77 anni, a Cortina d’Ampezzo.

   

Uno dei migliori arrampicatori nella tecnica di free solo oggi è l’americano Alex Honnold, che il 3 giugno del 2017 ha arrampicato con le sue fidate scarpette e il sacchetto di magnesio El Capitan nella Yosemite Valley: novecento metri di puro granito. La via scelta da Honnold, Freerider, è stata aperta nel 1998 da Alexander Huber, arrampicatore tedesco, autore di molte altre vie su El Capitan. È la via più facile del monolite di granito, ma è pur sempre un grado (7c) di un livello esperto. La prima volta che El Capitan è stato scalato per la via The Nose, è stato nel 1958 da Warren Harding. Ci ha messo 46 giorni, distribuiti in 18 mesi: non potendo farlo in maniera continuativa, ha usato corde fisse per salire e scendere dalla parete. Per l’ascesa aveva utilizzato 675 chiodi più altri 125 a pressione. Nel 1960 la via fu ripetuta da Royal Robbins in sette giorni. Nel 1993 è stata poi scalata in libera, senza supporto di elementi artificiali se non la corda per sicurezza, da Lynn Hill. Hill ha impiegato 23 ore e ha dato inizio a un nuovo stile di arrampicata. Attualmente, chi prova ad arrampicare El Capitan in media ci mette 3-5 giorni. Honnold in free solo ci ha messo tre ore e cinquantasei minuti.

 

Honnold, oggi trentatreenne, arrampica da quando ne aveva dieci. A diciannove anni, dopo la morte del padre, molla tutto per dedicarsi all’arrampicata e incominciare a vivere in un van per accedere più facilmente alle pareti. Nel 2008 arrampica senza corda i 600 metri di Half Dome, sul El Capitan detiene il record di velocità di ascesa della via The Nose con Tommy Caldwell: un’ora e cinquantotto minuti. Molti sono rimasti ossessionati dalla Yosemite Valley, lo stesso Caldwell ha passato sette anni nel progettare la sua scalata del Dawn Wall. Quando Honnold parla di “El Cap” gli si illuminano gli occhi, si vede l’eccitamento di una sfida che si porta dietro dal 2009, quando ha incominciato a prepararsi a questo obiettivo.

   

  Illustrazione di Salvatore Liberti
   

Ha incominciato a visualizzare la via per testare e vedere cosa gli sembrava pericoloso o meno. Un processo di adeguamento continuo e in maniera progressiva per sentire che tipo di movimenti e quali prese funzionassero meglio per farlo sentire sicuro di abbandonare la corda. Un gioco di coreografia che si alterna tra i primi trecento metri in equilibri precari su appigli minimali e tra i restanti seicento metri di fessure, alcune così larghe tanto da far entrare metà del suo corpo, e diversi punti di estrema esposizione.

 

La sua impresa è stata documentata nel film “Free solo”, nei cinema italiani dal 19 febbraio, vincitore del premio BAFTA e dell’Oscar come miglior documentario. Il film è stato diretto da Jimmy Chin, fotografo di National Geographic e filmaker, amico di Honnold e a sua volta arrampicatore, e sua moglie Chain Vasarhelyi.

 

Le riprese iniziano un anno prima della scalata in libera e seguono la sua preparazione non solo fisica, ma anche quella mentale. Per addomesticare la paura, ha ripetuto più volte la via e alcune sue parti in cordata fino a sentirsi a suo agio. Un’ossessione per trovare i movimenti perfetti ed eseguirli alla perfezione, fino a che le dite delle mani potessero riconoscere a memoria da sole le prese. Un allenamento innanzitutto del suo subconscio, in modo da potersi godere l’arrampicata senza adrenalina (passati i punti chiave, sul suo volto compare un ghigno compiaciuto che si porta fino in cima). Durante i mesi di preparazione si è scritto su un quaderno tutti i movimenti che doveva fare, e ogni tipologia di presa.

 

Honnold ha iniziato la sua carriera da free soloist perché era talmente introverso che aveva paura di interfacciarsi con le altre persone. Diventando sempre più famoso con il passare del tempo è stato costretto a uscire dal proprio guscio, e paradossalmente le telecamere lo hanno aiutato a esprimersi e a comunicare i suoi sentimenti. Il suo approccio all’arrampicata dimostra che la sua non è una scelta adrenalinica o di chi non ha motivi per vivere e non si cura di rischiare la pelle, come si potrebbe pensare superficialmente: Honnold è invece uno che vuole vivere appieno la sua vita, facendo quello che lo rende se stesso. È pronto ad accettare la morte scalando, sa che potrebbe cadere, ma non vuole che succeda di fronte ai suoi amici e alle telecamere. Nel film racconta che il primo tentativo di scalata in free solo di El Capitan fallì dopo appena cento metri proprio per la presenza delle telecamere che lo facevano sentire meno sicuro. Ma anche questa paura è stata superata: “Niente di buono viene fuori quando si sta comodi e sicuri”, dice Honnold nel documentario.

 

La sua capacità di eseguire un certo grado di difficoltà con la stessa sicurezza sia stando a pochi metri da terra o a centinaia, è stata studiata da molti. Scansionando la sua testa e monitorando la stimolazione dell’amigdala del suo cervello, la ghiandola che gestisce le emozioni tra cui la paura, i medici hanno rilevato che a Honnold serve una stimolazione maggiore della media delle persone per avere una reazione dalla ghiandola. Predisposizione? La sua concentrazione e la sua calma quando si arrampica slegato sono qualcosa di mai visto prima. I suoi movimenti sono talmente fluidi, eleganti e controllati che sembra quasi non faccia alcuno sforzo: si direbbe che non possa mai cadere. Eppure nel documentario si discute molto di questa possibilità fatale: ne parlano i suoi amici e soprattutto la sua ragazza, Sanni, che dice più volte di non riuscire a capire le ragioni che lo spingono a fare quello che fa. La stessa domanda che molte persone si fanno guardando le imprese degli alpinisti senza capire perché un uomo possa mettersi volontariamente in situazioni di pericolo. La verità, affrontata più volte da Honnold in varie interviste, è che siamo quasi sempre in una situazione di pericolo, solo che non percepiamo. Suo padre, racconta, è morto per un attacco di cuore mentre stava guidando verso l’aeroporto. Inaspettato. L’importante è quello che si decide di fare della propria vita con il tempo a disposizione.

  

Il motivo per cui una persona va in montagna è molto personale e ha a che fare con il desiderio di liberare la mente e forzarla a essere presente senza vagare in altri pensieri. Qualcuno di dà allo yoga, alla meditazione, alla pittura o pratica qualche altro sport. Ma la forza attrattiva delle montagne non ha pari, è un’ossessione che non molti comprendono, la liquidano parlando di sciocca ricerca di adrenalina, quando in realtà è quasi sempre l’opposto. Nel suo libro Mountains of the mind Robert MacFarlane scrisse: “Per chi ama le montagne, la loro meraviglia è al di là di ogni controversia. Ma per chi non le ama, la loro forza attrattiva è al di là di ogni ragionevolezza. Cos’è questa strana forza che ci attira verso l’alto, questo canto delle sirene della cima?”.

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