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Il bodybuilding alla prova del tempo

Giorgio Burreddu

Per costruirsi il corpo perfetto il massimo della vita è una bistecca ai ferri. Il culturismo tra nuovi canoni, vecchie nostalgie e un'evidenza: non puoi essere il più figo per sempre. Parlano Costantino Vassiliou e Max Merighi

Quando sto preparando una gara a cena non ci esco. Niente pizza, niente sgarri. Il massimo della vita è una bistecca ai ferri. Stop. La mattina la sveglia è alle 5, preparo qualcosa ai fornelli, poi faccio allenamento aerobico, ho una tabella molto rigida e rigorosa e ogni tre o quattro ore mangio”. Dura la vita del bodybuilder. Non solo perché serve un fisico allenato anche per bere sali minerali e mangiare petto di pollo ai ferri, albumi, insalata, avena. E’ da gennaio che Costantino Vassiliou sta preparando il suo prossimo Mr. Universo per la Nabba WFF, una delle tante federazioni che organizzano eventi di alto profilo. Si disputerà a giugno, a Seul. L’anno scorso a Singapore arrivò secondo, a questo giro è il favorito. Costa ha 53 anni, è un personal trainer, è già stato campione nazionale, d’Europa e del mondo; è nato ad Atene ma vive a Bologna. Sua figlia Sofia ne ha 7, “lei qualche volta mi dice papà sei troppo grosso e a me quelli così non mi piacciono. Ci ridiamo su. Mi guarda i muscoli, mi controlla, mi dice sei tirato o non sei tirato, ormai lo capisce pure lei. L’ho anche portata alle gare, ma ha un po’ di timore nel vedere tutti quegli omaccioni pieni di spray abbronzante. Se non altro è una bambina che mangia sanissimo: un sacco di riso, niente merendine o altre schifezze”.

 


Costantino Vassiliou


  

Nel 1987 si trasferì a Parma per studiare e diventare veterinario. Finì per fare Scienze delle tecnologie alimentari. In Italia c’era già stato suo papà: era diventato ingegnere, poi era tornato in Grecia, e quando per Costa si era presentato il momento di andare via da casa la mamma gli aveva consigliato di seguire le orme del padre. “Da ragazzino ero magrolino. Pesavo 66 chili, poi sono cresciuto. La palestra mi è sempre piaciuta. Puoi allenarti finché vuoi, ma in questo sport conta anche la genetica, la genetica conta sempre. Non potrei mai correre come Bolt, per esempio. Però nel culturismo ero bravo, e alla fine è diventato il mio mondo”. Succedeva a molti negli anni Ottanta e Novanta. Al cinema potevi trovare i film senza esclusione di colpi, con i buoni che le prendevano fino allo sfinimento ma poi c’era sempre un lieto fine a rimetterli in sesto. Uscivi la sera e andavi a vedere Stallone o Arnold Schwarzenegger fare a cazzotti, e intanto valutavi che razza di muscoli avevano messo su quei bestioni coraggiosi. “Io ero fissato con Conan il Barbaro. Conan, te lo ricordi? E poi leggevo tutte le riviste, che ne so: Flex, Cultura fisica, Muscle and fitness, le leggevo tutte quante. Le sfogliavo, ci passavo le ore”.

 

La prima volta a L. A. “entrai nella palestra più famosa, non mi allenai. Cercavo di capire cosa fossero quei macchinari”

“Ho iniziato a frequentare la palestra perché era come andare al bar, ci si incontrava e stava insieme. Oggi è diverso”

Cosa è rimasto oggi di quella cultura di massa? Phil Heath, il più grande bodybuilder al mondo che ha vinto sette volte Mr. Olympia, ormai ha quasi quarant’anni e guadagna un milione di dollari a stagione. Non sono molti quelli che oggi possono permettersi una vita da professionisti. In Italia sono sempre meno. Vlad Yudin, nel suo film “Generation Iron” del 2013 e nel sequel del 2017, ha raccontato Heath e tutta la nuova generazione di culturisti a stelle e strisce, l’evoluzione della loro specie. C’è però ancora un sottofondo nostalgico quando si parla di bodybuilding, ed è rappresentato da gente come Vassiliou e da tutti quelli che negli anni Ottanta e Novanta prendevano l’aereo, andavano a L. A. quindici o anche venti giorni, passavano lì le loro vacanze, tra la palestra e una passeggiata a Venice Beach. “Mettevo via due lire col lavoro e poi le spendevo tutte per andare negli States. L’ho fatto diverse volte quando avevo venti, trent’anni”, racconta Costantino. “Ovviamente la prima me la ricordo: entrai alla Gold Gym, la palestra più famosa di Hollywood, nemmeno mi allenai. Girai mezz’ora cercando di capire cosa fossero quei macchinari, c’erano macchine per ogni muscolo, macchine per questo e macchine per quello, e rimasi incantato da tutta quella perfezione e dalla bellezza”. Bellezza è una parola strana quando viene associata al culturismo. Lo dice anche Costa: “Una donna ti guarda, vede tutti quei muscoli, quelle vene che sembrano esplodere e magari pensa ‘che schifo’: ci può stare. Io parlo da addetto ai lavori”.

 

Il concetto di bellezza prende un senso a seconda di chi lo usa. Quel tipo di culturismo, quello di trent’anni fa, era fondato sull’equilibrio e su un certo canone di perfezione. “La simmetria è la cosa importante, contano le proporzioni. Non puoi avere le gambe piccole e il torace enorme. Secondo me quelli di adesso sono troppo grossi, è cambiato tutto”. Il mondo cambia sempre. Figurati i canoni. Racconta Max Merighi, oggi bodyguard, due figli, campione d’Europa e del mondo nel 1993, che “la vita era diversa, erano gli anni in cui la cultura del fisico era forte, il muscolo lo dovevi avere definito, disegnato, non troppo grosso, bello, con le fibre muscolari fatte in un certo modo. Negli Usa, in quegli anni, noi atleti eravamo considerati seriamente”. Max finì in mezzo a una storia di doping, lo misero in carcere. “Poi quella causa l’ho vinta, sono stato scagionato e risarcito”, racconta. Aveva cominciato con la bicicletta. Il suo papà lo accompagnava alle corse, ma la fatica era troppa. “Un giorno presi la bici e la buttai in un fosso. Cominciai ad andare in palestra perché dovevo rinforzami un po’. Non ne sono più uscito”. Quella della palestra è una fatica diversa, che si misura coi pesi, con la ripetizione di un gesto, con le tabelle, il cibo.

 

A metà negli anni Novanta Max era una vera celebrità, una celebrità e una montagna di muscoli. “Una volta lungo la Venice walk un bambino venne a chiedermi l’autografo. Piccolo, gli dissi, guarda che il campione è questo signore qui. Vicino a me c’era Nicky Lauda. Sicuramente l’attenzione c’era, era forte. Io pensavo ad allenarmi, era quella la mia vita. Per sei mesi vissi a Nassau, alle Bahamas, soltanto perché dovevo fare uno stage. La villa era la stessa dove avevano girato uno degli 007. E poi allenavo i divi di Hollywood, facevo anche il personal trainer. La prima fu Sandra Bullock, aveva appena girato “Speed”. Ma c’erano anche Meg Ryan, Jean-Claude Van Damme e tanti, tanti altri”.

 

Per molti, le icone muscolari degli anni Ottanta erano esclusivamente una reazione al decennio precedente: il Vietnam, il femminismo, il multiculturalismo. L’idea americana del maschio sembrava in crisi: poi arrivò Reagan, con il programma Star Wars, la spesa militare per ripristinare la potenza americana e combattere l’impero sovietico del Male. Nel frattempo la vistosa virilità di Stallone e Schwarzenegger diventò popolare. L’Italia accolse tutto questo con un altro spirito, legato più all’estetica che a una sorta di psicanalisi. E oggi il culto di un canone estetico in un certo senso ha già fatto epica. Ancora Costantino: “Ho iniziato a frequentare la palestra perché era come andare al bar, ci si incontrava, si facevano chiacchiere e si stava tutti insieme. Adesso è tutto diverso. In California incontravi i grandi campioni del culturismo. Lou Ferrigno che era anche l’incredibile Hulk, Flex Wheeler, Shawn Ray, tutti lì nella stessa palestra, io mi allenavo con loro, non se la tiravano”. Non era questione di virilità, né di potenza. Forse era la vanità. “Quella c’è – dice ancora Vassiliou – è inutile nasconderci: uno vuole essere più figo, e questo è tutto. Solo che non puoi esserlo per sempre. Alla mia età, per esempio, capisco i limiti. Non penso più a diventare grosso o ancora più grosso, non penso più a mettere su altri muscoli. Arrivo al massimo della forma nel momento che conta, cioè il giorno della gara”. Dimostrazione del fatto che i muscoli contano. Però mai solo quelli.