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Così la più veloce ha imparato ad andare piano. Lo sci di Sofia Goggia

Giorgio Burreddu

La rivelazione nel 2017, la consacrazione nel 2018. Poi l’infortunio e lo stop. Chiacchierata sulla lentezza con la sciatrice italiana più forte che già punta al Mondiale di febbraio

All’inizio era la frenesia a dominarla. C’erano la consapevolezza di avere talento e la determinazione spingeva Sofia in quella direzione lì, alla ricerca del successo, verso la realizzazione professionale: gli indizi erano sempre tutti giusti. Mai il momento. In maniera particolare non lo fu il 4 dicembre 2013. L’incipit di quel giorno lo ha fatto diventare un racconto. “Mi chiamo Sofia Goggia, ho ventun anni appena compiuti, ho una insaziabile fame di vittoria e voglio letteralmente spaccare il mondo”. Spaccò soltanto il suo. Cadde, rotolò al suolo. Fratturò le certezze. Disintegrò il suo io in piccoli frammenti, in minuscoli pezzettini da analizzare, comprendere e ricostruire. Tre anni dopo, a Lake Louise, sulla stessa pista su cui si era fatta male, Sofia torna sul podio. “E’ stato il karma, quella pista mi ha tolto tutto e più tardi mi ha ridato tutto. In un certo senso ha portato via la Sofia Goggia di prima e mi ha consegnato quella di adesso. Nel mezzo però è stato un inferno”. E’ probabile che quel giorno Sofia abbia cambiato il suo rapporto con le cose: con il successo (il record di volte sul podio e la medaglia olimpica), e anche il suo rapporto con il tempo. E’ mutato anche quello. Una delle metafore che più spesso l’ha accompagnata in questi anni è una frase di Bruce Lee, “sii come l’acqua”, perché l’acqua si adatta alle cose e scorre come deve. “E’ come quando sei in autostrada, le cose passano, scorrono velocissime e non riesci a metterle a fuoco. Se ti fermi, se rallenti, vedi tutto, anche le scritte, tutto quello che passa lo puoi leggere. E questo ti permette di fare cassa, di guardare tutti i cartelli che ci sono sulla strada. E di capire se stai andando nella direzione giusta, e di vedere le cose che non vanno nella tua direzione. Capisci se ci sono cose da cambiare, da migliorare”.

 

Una delle metafore che più l’ha accompagnata è una frase di Bruce Lee, “sii come l’acqua”, perché si adatta alle cose e scorre

“Mi ha insegnato questo il periodo di stop, dobbiamo saper accettare le cose anche quando non vanno nella maniera desiderata”

Il tempo di Sofia è un paradosso: supersonico quello che passa sugli sci, calmo e placido quello che le scorre accanto tutte le volte che è piantata al suolo. Ma ci è voluto tempo anche per mediare, per trovare l’equilibrio tra queste due estremità. Un equilibrio che prima forse non c’era. “E’ a quel punto che devi essere bravo ad andare veloce in alcune cose, ma anche a saper frenare, rallentare, fermarti in altre. Ci si può allenare anche alla lentezza, come alla velocità. Un maratoneta va a una velocità costante. Ma se vai sui sentieri di montagna corri più veloce in alcuni tratti, in altri usi più tattica per affrontare la salita in maniera diversa dopo, e allora puoi avere una velocità diversa. Sei tu che decidi, che guidi la macchina, tu che scegli come e quanto andare forte, e in che direzione: quando hai queste tre cose sei sulla buona strada”.

 

Oggi quella di Sofia Goggia è una lentezza benevola. L’ha compresa ancora meglio l’ottobre scorso, quando l’ennesimo infortunio (una frattura al perone questa volta) le ha rovinato l’inizio di stagione. “La lentezza è un lusso. Eppure io scappo dalla lentezza. Se sei lento, sugli sci non vai forte. Però il tempo della lentezza nella vita è fondamentale. Altrimenti se vivi senza memoria ti passa tutto”. I primi giorni con il gesso sono stati un calvario, “portare anche solo una tazzina di caffè al tavolo era un problema”. Per una abituata a cercare di superare il limite a duecento all’ora su due aste di carbonio è davvero uno stravolgimento. “Ho apprezzato il fatto di avere il tempo per me stessa. Non che prima non l’avessi. Ma ho avuto il tempo di guardarmi dentro, tempo per Sofia, per mettere a fuoco cose che invece altre volte non metto a fuoco. Quali cose? Aspetti lavorativi che si possono evolvere in una direzione migliore. Aspetti personali, situazioni in cui devi fare chiarezza”.

 

La lentezza di Sofia è antica, quasi primordiale. Ci sono volute diverse tappe perché si manifestasse. Quando andava a scuola non era così. Il suo tempo era già veloce, velocissimo. Alle elementari scrisse in un compito quello che avrebbe fatto da grande. “Il sogno della mia carriera agonistica è vincere le Olimpiadi di discesa libera”. Aveva nove anni, era il 2002. Ce ne sono voluti altri sedici di anni per arrivarci, per arrivare fino a PyeongChang. Qualche volta di corsa, senza voltarsi indietro, altre volte forzatamente seduta ad aspettare che i giorni passassero in fretta, e le ossa si rinsaldassero. In fondo è questa la magia del tempo, la sua relatività. All’inizio Sofia sembrava non doverlo afferrare mai, quel sogno. Le scivolava dalle mani. Poi qualcosa è cambiato. Da zero a tredici volte sul podio in un anno: uno space shuttle. Da atleta incompiuta a regina delle nevi. Per due stagioni di fila è stata nominata atleta dell’anno, anche questa è velocità. “Nel 2017 sarebbe stato opportuno essere nominata rivelazione dell’anno. Questo, invece, è stato l’anno della consacrazione. Non so cosa mi riserverà il 2019”. Lentamente è cambiato il rapporto di Sofia con il tempo, con le cose, con i sentimenti. Ezio, il suo papà, ha una baita sulle montagne intorno a Bergamo, è un posto che ha qualcosa di selvaggio, i telefoni prendono a singhiozzi, si sentono soltanto i rumori della natura e del tempo: l’isolamento è quasi totale. “Io lì vivo il tempo della vita come andrebbe vissuto, vivo il tempo della vita per la persona che sono e per la vita che merita di essere vissuta. E questo ci capita quando stiamo con persone speciali, a quel punto ti dimentichi di tutto, del telefono, di tutto quello che non conta”. Sofia viaggia da sola, alla scoperta di “nuove culture, nuove persone, viaggi in cui sono lontana, e scopro e conosco, sono incuriosita. Ho gli occhi pronti a cogliere la bellezza”. Sofia legge e rilegge (“Il Piccolo Principe ogni tanto, soprattutto quello che ho sottolineato”), appunta pensieri, scrive. Tutte cose che richiedono una necessità: il tempo. “In questo mondo tempi e spazi sociali sono esauriti. Perché anche l’invasione del telefono ti toglie qualcosa. Quante volte metti un appuntamento all’ultimo? Io ho fatto un’agenda in cui scrivo i miei appuntamenti, me li appunto a mano, e capisco quando ho degli spazi liberi. Li vedo tra una riga e l’altra. Se fai tutto per telefono dici sì a un sacco di cose e ti riempi il tuo tempo con una velocità assurda, non riesci più a vivere. Invece se metto tutto sull’agenda vedo che in un giorno, che ne so, ho tre appuntamenti. Stop. Stiamo vivendo un’èra in cui il processo evolutivo tecnologico è talmente avanzato che però sta implicando una involuzione a livello umano”.

 

Ha imparato tutto dalla sua famiglia, tanto dal suo papà, che per una vita ha fatto l’ingegnere e anche il pittore (“Ora più il pittore”), un uomo riflessivo che ha educato i suoi figli ai valori di un’esistenza piena. “Mio papà è un grande. In questo tempo, in cui siamo tutti molto concentrati sul fare, lui dice ok, io faccio ma voglio anche vivere. Lui ha il coraggio di farlo davvero, di vivere, di inseguire le proprie passioni. E di viverle in una maniera in cui riesce a trarne diletto”. Ci prova anche lei, ogni tanto, e adesso ci riesce. “Qualche volta ci provo a stare non connessa, ci provo davvero, solo che siamo tutti avvolti in questo turbine, in questo vortice, proviamo un senso di smarrimento se non abbiamo il telefono con noi. Nel momento in cui vai fuori e ti si spegne il telefono perché non hai più batteria provi panico per venti minuti. A me è successo. E poi? E poi dici che bello, non devo controllare più niente. Sembra che tu prenda in mano le redini della vita, improvvisamente non sei più schiavo della tecnologia imperante dei tempi nostri”. Basta così poco, però bisogna accorgersene. Sofia ha imparato a rallentare, ad andare lentamente, a godersi ogni cosa, ha imparato che “il viversi tutto con la giusta lentezza poi ti permette di andare veloce. La velocità si crea nella solidità del percorso dato dalla lentezza della crescita”. E’ un fatto naturale, che la Goggia ha sempre saputo per istinto, con il talento che hanno i fuoriclasse, ma che ha compreso a un certo punto del suo percorso di campionessa, a un certo punto del suo percorso di vita. “La natura è lenta, ha i suoi tempi. A me ha insegnato qualcosa, sì. E sai perché? Perché devo rispettare questo perone che si è fratturato, le sue esigenze, devo rispettare il tempo biologico delle cose. Mi ha insegnato questo il periodo di stop, dobbiamo saper accettare le cose anche quando non vanno nella maniera desiderata. La natura ha la propria lentezza, i propri tempi. E noi non possiamo fare altro che rispettarla, perché altrimenti se andiamo a forzare le cose va a finire che non facciamo tutti i passaggi giusti e questo non va bene”. L’infortunio sta passando, Sofia recupera sempre più velocemente. Ha lavorato molto, ma si è presa le pause che la natura le imponeva: ha letto, ha fatto un mutuo per comprare casa sulle sue colline, attorno a Bergamo, ha seguito i lavori assaporando il tempo in cui quello sarà il suo rifugio, e quando vorrà potrà chiudere il mondo fuori. Sofia tornerà sugli sci i primi giorni di gennaio, per la fine del mese ha promesso che sarà di nuovo competitiva. Il prossimo obiettivo sono i Mondiali di Are, in febbraio. Basta saper aspettare: è solo questione di tempo. Inesorabile, lento e bellissimo. Come dovrebbe essere, com’è.

 


 

Giorgio Burreddu scrive per il Corriere dello Sport-Stadio. Qualche libro (tutti con Alessandra Giardini), l’ultimo per i 120 anni della Figc. È nato nel 1983.

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