L'Unione (sportiva) fa Trieste. I cento anni della Triestina

Manuel Orazi

Una mostra per raccontare un secolo di Unione Sportiva Triestina, dai fasti di Nereo Rocco alla serie C di oggi

C’è un anniversario nell’anniversario della fine della Prima guerra mondiale ed è la fondazione dell’Unione Sportiva Triestina Calcio, nata il 2 febbraio 1919 dalla fusione di due formazioni cittadine precedenti. La fine della Prima guerra mondiale e l’arrivo del Regno d’Italia infatti coincidono con la rinascita calcistica della città che, molto opportunamente, viene celebrata in queste settimane con una bella mostra: “Un secolo di Storia di centro primavere”, presso il Salone degli Incanti, vale a dire l’ex pescheria sulle rive. Fino al 3 febbraio si poteva ripercorrere cento anni di una storia per niente locale o folcloristica: molte delle personalità che hanno dato vita alla US Triestina, infatti, sono state cruciali per la storia del calcio italiano e internazionale, come nella tradizione di questa città unica non perché internazionale come Roma o Milano, ma perché asbugicamente “sovranazionale”. Ecco dunque sfilare allenatori austriaci e ungheresi, giocatori croati e sloveni inevitabilmente legati ai drammi del confine orientale, le foibe, la Risiera di San Sabba ecc. Uno degli allenatori degli anni Trenta, István Tóth-Potya, muore fucilato dai nazifascisti ungheresi perché aveva protetto molti ebrei.
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Del resto a Trieste prima della guerra si trovava la comunità ebraica più numerosa del paese, e uno dei suoi molti grandi figli, Umberto Saba, dedicò alla squadra cittadina alcune fra le più celebri poesie sul calcio: “Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati, sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati. Trepido seguo il vostro gioco… V’ama anche per questo il poeta, dagli altri diversamente, ugualmente commosso” (Parole, 1933-34).

 

All’interno della candida cattedrale laica dell’ex pescheria – dove chissà perché Francis Ford Coppola volle girare le scene di Ellis Island per Il Padrino parte II nel 1974 – spicca l’allestimento dell’architetto Giovanni Damiani, ovviamente rosso e bianco. Il complesso è fatto per socializzare e tenere insieme tutte le generazioni, spiega Damiani, prevedendo uno spazio gioco per i bambini, un ristoro con il bar – che nella città del caffè e dello Stock 84 non può mai mancare – e uno per il merchandising. Inoltre il “muro della gloria” circonda la ricostruzione di un campetto centrale con tanto di porte e spalti, mostrando fotografie, documenti e statistiche di cento anni di formazioni come in ogni moderno museo sportivo europeo. La mostra, curata da Roberto Spazzali, è arricchita peraltro da alcuni cimeli della Figc come trofei, magliette e scarpini originali della Nazionale, ricordi di Pietro Anastasi, Paolo Rossi, Fabio Cannavaro, pietre miliari insomma. Dopotutto la storia dell’Unione è intrecciata a doppio filo con quella della Nazionale italiana, a partire dai tre triestini campioni del mondo nel 1938 a Parigi, Piero Pasinati, Gino Colaussi e Bruno Chizzo – nell’intervallo l’allenatore Vittorio Pozzo faceva loro cantare Il Piave mormorò. Eppure il primo triestino a vestire la maglia azzurra fu un altro, seppur per una sola volta, nel 1934: Nereo Rocco, che calcisticamente è pari solo a Garibaldi. Faccia rude da macellaio, pur essendo di famiglia benestante addetta al commercio della carne, Rocco ha reso familiare il dialetto triestino in tutta Italia, in un primo momento allenando la Triestina ripescata per motivi politici (si dice per mano di Andreotti nel Gopoguerra, mentre il Ponziana, la squadra rivale cittadina, giocava per volere di Tito nella Prva Liga jugoslava nel suo tentativo di annettere simbolicamente Trieste). Rocco, da allenatore arrivò a sorpresa secondo nel 1947-48, dietro solo al Grande Torino dove militava l’ex alabardato Giuseppe Grezar, quindi passò all’intemerato Padova, quello reso celebre dall’immortale battuta “vinca il migliore! Speremo de no”. Con la sua spontaneità popolare, Rocco sedusse in fretta Gianni Brera, giornalista massimo del gioco del calcio e scrittore di miti: quelli strapadani delle cene di trippa fino a tarda notte nella trattoria milanese “L’assassino” e quella sulle sue origini viennesi: chissà se è vero che il nonno Roch o Rock scappò a Trieste per inseguire una ballerina spagnola… In ogni caso Il paròn ha rivoluzionato la tattica con quel catenaccio caratterizzato dall’impiego del libero dietro la difesa che in breve verrà definito gioco “all’italiana”. Eppure il catenaccio, così disprezzato all’estero e dagli esterofili (“I alenadori… Dal lùnedi al vénerdi i xe olandesi. Al sabato i ghe pensa. La domenica, giuro su la mia beltà, tuti indrìo e si salvi chi può”), è quello che sulla panchina del Milan ha fatto alzare la prima Coppa dei Campioni in Italia a un capitano, Cesare Maldini da Servola, nel 1963, facendo giocare Gianni Rivera, primo Pallone d’oro tricolore.

 

Fabio Cudicini, il Ragno nero, triestino pure lui, vincerà la Coppa dei Campioni cinque anni dopo. Figlio di un altro tempo, dopo lo scudetto e la coppa avrebbe voluto restare a Milano, ma aveva già dato la sua parola al presidente del Torino , OrfeoPianelli. Niente di scritto, ma allora le parole avevano un peso, ed ecco allora Rocco sotto la Mole con tre discrete stagioni, poi il ritorno al Milan con altri trionfi e l’allevamento di tre gagliardissimi eredi: Maldini, Gigi Radice e Giovanni Trapattoni che porterà il suo verbo alla Juventus degli anni Settanta e Ottanta. Presentando la Coppa Intercontinentale alla “Domenica Sportiva” nel 1969 disse però, romantico, che ora il suo sogno era quello di riportare la Triestina in serie A – morirà dieci anni dopo, pochi mesi prima che il Milan vincesse lo scudetto della stella. L’Unione naturalmente non è stata solo Rocco, ma anche tante occasioni mancate, come l’unica stagione di quel geniaccio ungherese di Béla Guttmann che, allenatore nel 1950-1951, fu accusato di aver lucrato illegalmente su un trasferimento e quindi cacciato, col risultato che inventò il modulo 4-2-4 a San Paolo del Brasile (la cui Nazionale copiò per vincere il Mondiale del 1958) e poi al Porto e al Benfica, dove tenne a battesimo Eusebio, vincendo campionati e la prima Coppa Campioni. Seguono, fra i grandi triestini, Ferruccio Valcareggi, giocatore alabardato per tre anni, poi vincitore da allenatore dell’unico Europeo italiano, quello del 1968, nonché ct della leggendaria Italia-Germania 4-3 a Mexico ’70, nonché del vaffa di Chinaglia nel 1974 a Monaco. Dagli anni Settanta l’Unione è scesa per sempre nelle serie minori, scontando anche la marginalità economica della provincia, con pochi alti e molti bassi, anche se diversi allenatori di rango si sono avvicendati sulla sua panchina, da Ottavio Bianchi ad Andrea Mandorlini, Pietro Vierchowod, Rolando Maran fino all’attuale Massimo Pavanel.

 

Fra le tante iniziative della mostra ci sono anche piccoli tornei di calcetto e di Subbuteo, calcio da tavolo popolare che resiste oggi soprattutto sul mercato antiquario. Fra i sondaggi della mostra il calciatore più amato di sempre è risultato vincitore Mirco Gubellini, fromboliere emiliano per circa un decennio a cavallo del 2000. Oggi la US Triestina è nella nuova Serie C, seconda in classifica e con una nuova proprietà australiana, il presidente Mario Biasin è uno dei tanti esuli giuliani che laggiù vive, e Mauro Milanese (ex di Toro, Napoli, Inter e Parma) è amministratore unico: insomma, tutto fa ben sperare per il secondo secolo di vita, dove ancora, per usare le parole di Saba, “la vostra gloria, undici ragazzi, come un fiume d’amore, orna Trieste”.

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