Loris Karius (foto LaPresse)

Meglio cantare con Klopp che piangere con Karius. Viva il calcio da motherfucker

Jack O'Malley

Dopo la finale di Champions League e la vittoria annoiata del Real Madrid

Londra. Non posso che stare con quel maledetto tedesco di Jürgen Klopp. L’allenatore del Liverpool è stato filmato all’alba del giorno successivo all’abominevole sconfitta in finale di Champions League mentre cantava, abbracciato ad alcuni tifosi: “Abbiamo visto la coppa da vicino, il Real Madrid ha avuto una fortuna fottuta”. Non so se quella degli spagnoli sia stata fortuna, certo è che è stata fottuta. Prima che gli italiani diventassero tutti costituzionalisti, e subito dopo essere stati esperti di GDPR, sabato sera sui social network c’è stato un moto di simpatia per Karius, il portiere dei Reds che ha fatto entrare il Real Madrid nel mito prendendo due gol come non ne prende neppure un portiere sovrappeso al torneo aziendale di calcetto. Un coglione, lui e chi lo mette in campo, le cui lacrime però hanno scatenato i soliti hashtag da birra analcolica, #jesuiskarius et similia, tweet di affetto sul fatto che “una serata storta può capitare”, e persino il messaggino sdolcinato di Ceballos, giocatore del Real Madrid che gli ha scritto: “Cadere è permesso, rialzarsi è d’obbligo. Coraggio, amico, il calcio offre sempre una seconda opportunità, andiamo!”.

 

 

Ma che è questa deriva da gentiluomini rugbysti, che fine ha fatto il calcio da motherfucker? Non dico di avere apprezzato Sergio Ramos, che ha rotto intenzionalmente Salah, cambiando indirizzo alla partita, ma l’eccesso di sentimentalismo immotivato mi fa l’effetto della figlia di Madonna, Lourdes, che pubblicizzando un paio di scarpe orrende si mostra con ascelle e gambe pelose per dimostrare la sua indipendenza femminista dagli stereotipi: mi ammoscia. Magari Karius vincerà dieci Champions League, e quelle due cappelle di sabato sera diventeranno un aneddoto da raccontare divertito al suo tatuatore e al suo parrucchiere mentre aprirà bottiglie di champagne a colpi di sciabola, ma nessuno può impedirmi di dire che per colpa sua quella di quest’anno è stata la finale europea più insulsa del decennio, nemmeno Mattarella. Lo dimostra la noia che è seguita alla partita: non si parla della terza Champions di fila vinta dai Blancos – i giocatori del Real al fischio finale e durante la premiazione erano più scoglionati di di un bambino a un convegno sullo spread – ma delle minacce di morte a Karius e di dove potrebbe andare a giocare Cristiano Ronaldo il prossimo anno (mi auguro e spero per lui, per noi, per il calcio e per il senso della decenza, non in quella farsa di Ligue 1 alle dipendenze del Paris Saint-Qatar).

 

Al Liverpool sabato sera è girato tutto male, e il Real come cantava Klopp avrà anche avuto all the fucking luck, ma che in Europa alla fine abbiano sempre la meglio le élite lo sa anche la mamma di Paul Krugman. L’illusione che il calcio inglese potesse finalmente tornare a vincere qualcosa, dopo un quinquennio di dominio spagnolo – con la sola eccezione dell’Europa League al Manchester United un anno fa (ah già, ma tanto Mourinho non vince più niente) – è stata bella e dolorosa come una sbronza da cui ci si sveglia con un gran mal di testa. Ciò che ci fa tremare il cuore davanti al calcio è la sua imprevedibilità, il Real Madrid ha tolto pure quella, diventando il primo big data che ce l’ha fatta. Temo che la Nazionale dei Tre Leoni farà una brutta fine al Mondiale di Russia, anche se non triste come quella italiana, impantanata a discutere sulle polemiche sollevate dall’ex ct Ventura e costretta a guardare in tv l’evento sportivo dell’estate. Cheers.