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Doping di stato senza doping: la Wada assolve 95 atleti russi su 96

Giovanni Battistuzzi

Per il direttore generale dell'agenzia antidoping "le prove disponibili sono insufficienti per affermare che ci sia stata una violazione delle regole antidoping". Quello che non va nella Wada

Al doping di stato mancano i dopati. E così la Russia, nel settembre 2017, si ritrova nella paradossale situazione di essere riconosciuto come stato canaglia dello sport, che si è avvalso di un sistema di miglioramento delle prestazioni dei propri atleti tramite sostanze illecite, ma di non aver atleti riconosciuti ufficialmente come dopati. Secondo il New York Times, il direttore generale della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, in una relazione ai trentotto membri del consiglio di fondazione, ha ammesso che "le prove disponibili sono insufficienti per affermare che ci sia stata una violazione delle regole antidoping" per 95 dei 96 atleti russi squalificati per utilizzo di prodotti dopanti, e che per questo non hanno potuto partecipare a gare internazionali (Olimpiadi e Mondiali). Olivier Niggli, ha però sottolineato, quasi a discolpare l'agenzia che "dobbiamo accettare il fatto che l'obiettivo del rapporto McLaren era quello di smascherare un sistema di doping e non le violazioni dei singoli atleti".

 

Un cortocircuito che sembra assurdo. Perché se si certifica che uno stato è colpevole di una sofisticazione di massa delle prestazioni sportive, ma non si riscontrano prove delle sostanze vietate utilizzate per mettere in pratica questa sofisticazione di massa, l'accusa perde consistenza e può far sorgere il dubbio, a chi è in stato d'accusa, che ci fosse una manovra politica per penalizzarli.

 

Le 95 assoluzioni però dimostrano più che altro la faciloneria con la quale la Wada ha lavorato al caso. Niggli ha infatti spiegato come "il sistema era talmente ben ideato che le prove restanti sono state spesso molto limitate" e legate "a notizie filtrate da ambienti dello sport russo". L’avvocato canadese Richard McLaren, infatti, nell'elaborare il suo dossier avrebbe fatto affidamento a testimonianze interne alle federazioni senza però riuscire a ottenere gran parte dei campioni di sangue e urina incriminati, pur avendo ottenuto, a parole, un'ampia collaborazione dei dirigenti dell'antidoping russo. Una mancanza non da poco per un caso del genere che accusa un'intero sistema di aver dopato i suoi atleti.

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Quello che è successo infatti riflette l'inconsistenza dell'agenzia mondiale, incapace di superare un autoregolamento che demanda alle agenzie nazionali il controllo dei campioni di sangue e urine degli atleti. E imbrigliata in eccessi di burocrazia che ne rendono inefficaci, sia per tempistica sia per potere di intervento, le decisioni che assume. Un caso evidente è raccontato al New York Times da Jim Walden, l'avvocato del dr. Grigory Rodchenkov, uno dei principali accusatori del sistema russo di miglioramento delle prestazioni sportive: "La presunta disponibilità di Rodchenkov è stata citata come uno dei motivi della chiusura delle indagini di singoli atleti. Il dr. Rodchenkov era sin dall'inizio disposto a collaborare – infatti da più di un anno sta vivendo sotto protezione dal Dipartimento di Giustizia americano –, ma non è mai stata sollecita la testimonianza del mio cliente".

 

Un'altra dimenticanza che stride con la fretta con la quale erano state diffuse le notizie dell'esistenza di un sistema di doping di stato in Russia poco prima delle Olimpiadi di Rio 2016 e poi ribadite e confermate nel dicembre 2016.

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