Allison (foto LaPresse)

Alisson e l'efficace bruttezza che ha fermato l'Atletico Madrid

Giovanni Battistuzzi

Il portiere della Roma ieri in Champions League si è reso protagonista di una grande prova contro gli spagnoli, nonostante un modo di difendere la porta sgraziato e inelegante

Diego Pablo Simeone, l'allenatore dell'Atletico Madrid, ieri sera era in piedi davanti alla panchina guardava il campo con le mani sulle guance e lo sguardo incredulo. Era il novantunesimo e il centrocampista spagnolo Saul si è appena levato potente in aria, aveva colpito di testa e poi di destro sulla respinta del portiere spedendo la palla fuori. Simeone alza lo sguardo, guarda il risultato sul maxischermo dell'Olimpico ancora fermo sullo zero a zero e poi scuote la testa mentre un lungagnone vestito di nero coi guanti d'ordinanza esulta per l'ennesimo scampato pericolo. Quel ragazzone di un metro e novantadue e di ventiquattro anni è il portiere della Roma, è brasiliano, lo chiamano Alisson per brevità e ha appena costretto i Colchoneros al pareggio dopo una partita che avevano pressoché dominato. Gli spagnoli infatti, salvo rari momenti di sbandamento e un gioco di mani che poteva anche essere sanzionato con un rigore, si erano prodigati per novanta minuti e oltre in un gioco che aveva costretto i giallorossi a una difesa guerrigliera concedendosi appena qualche ripartenza, qualche affaccio nella metà campo avversaria. Nei volti dei tifosi sugli spalti c'era la sicurezza che prima o poi il gol sarebbe arrivato. Certezza che è però evaporata tra le mani carioca dell'estremo difensore voluto da Walter Sabatini due anni fa e lasciato frollare due anni in panchina alle spalle di Szczesny. 

Ieri Alisson Ramsés Becker è stato sollievo per i romanisti, un incubo per i madrileni, perché a vederlo saltare di qua e di là tra i pali dell'Olimpico c'era chi rendeva grazie e chi malediva quell'incastro strano di efficacia e bruttezza. Un incastro che stonava ancor più nella sera romana perché opposto all'elegante presenza di Jan Oblak che dall'altra area guardava perplesso i vani tentativi dell'Atletico di tornare in Spagna con ciò che sarebbe stato giusto portare, ossia i tre punti. Un incastro che dimostra quanto fosse vera e inattuabile la lezione di Ricardo Zamora, il grande portiere della Spagna degli anni Venti e Trenta, che ai suoi successori ricordò che "chi si erge a difesa della porta deve assumersi la responsabilità davanti al pubblico di agguantare tutti i tiri possibili senza dimenticare che il portiere non può esimersi dal portare avanti ciò che lo contraddistingue davvero: la bellezza del gesto del parare".

 

Zamora era "El Divino", chi lo ha visto giocare ne sottolineava le movenze da ballerino, "l'armonico movimento che in fase di tuffo diventava apoteosi della bellezza del atletismo umano", scriveva Ernest Hemingway dopo aver visto a Siviglia giocare l'Espanyol, squadra nella quale giocava il numero uno spagnolo. Alisson è più modestamente il "Gato", ma più per salti che per movenze. Perché al contrario dei gatti il portiere brasiliano non ha il perfetto controllo del suo corpo, si muove scomposto in un ondeggiare di spalle e di anche che sembrano essere sempre in ritardo rispetto alle mani che vanno sicure sul pallone. I suoi tuffi sono obliqui, le gambe slegate dal corpo, le braccia non perfettamente coordinate. La sua è una protezione della porta di stazza più che di posizionamento. Si butta e difende con tutto il corpo, pure con la faccia come ben sa Vietto che si è visto ribattere un gol quasi ormai fatto.

 

I suoi centonovantadue centimetri sono incerti ma altamente redditizi, sarà forse per le origini tedesche, che vuol dire affidabilità almeno secondo il gergo comune; sarà forse e soprattutto per Daniel Pavan che da anni forma i portieri dell'Internacional di Porto Alegre e che a chi gli chiedeva chi fosse l'erede di Dida rispose senza titubanze: Alisson. E a chi gli faceva notare le differenze stilistiche tra l'ex estremo difensore del Milan e del suo allievo rispose: "Un portiere deve parare, mica fare una sfilata di moda".

 

Alisson e tutto il Brasile deve molto a Daniel Pavan. E' lui infatti ad avere "rivoluzionato quello che è da sempre stato il mantra del calcio brasiliano: i migliori giocano, gli altri vanno in porta", ha scritto O Globo a luglio dello scorso anno. E' stato lui a modificare l'allenamento del portiere in Brasile, avvicinandolo allo standard europeo, migliorando così un settore che sino a metà della prima decade degli anni Duemila si è contraddistinta per una certa approssimazione. "Pavan ha modificato l'approccio all'Internacional, curando la formazione del portiere, ha fatto diventare loro capaci e efficaci". Ora serve l'ultimo passo: farli diventare pure eleganti.

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