La perfetta geometria del calcio di Giuliano Sarti

Giovanni Battistuzzi

E' morto il portiere della Grande Inter di Herrera, estremo difensore unico che "sapeva che al di là della porta c'era un campo", disse di lui il Mago

Il suo era un universo di proporzioni, di linee immaginarie tracciate sul campo, di geometrie essenziali. Il suo era un reticolato all'interno del quale ogni oggetto trovava una sua coordinata e lui, a seconda dello spostamento di palla e avversari, una posizione precisa, quella esatta. Il calcio per Giuliano Sarti, morto oggi a ottantaquattro anni, era essenzialmente questo, un sistema disordinato a cui doveva essere dato per forza un ordine. D'altra parte poteva permetterselo, faceva il portiere, era l'ultima speranza a difesa della rete e a chi fa questo mestiere "è sempre concesso – almeno stando a quanto diceva Ricardo Zamora, uno dei portieri più forti della storia – di avere una propria visione del mondo". Helenio Herrera l'aveva scelto per questo, perché "sapeva che al di là della porta c'era un campo", perché era uno "serio, a cui non pesano le responsabilità", perché "un portiere deve farsi rispettare e lui lo sa fare": in pochi mesi iniziò a comandare la difesa e a renderla ermetica. Picchi non la prese bene, dopo alcuni giorni ne parlò all'allenatore. Herrera rispose: "Seguilo". Era quella l'Inter che ben giocava, che un campionato l'aveva vinto, che era pronta a diventare grande, la Grande Inter, quella del Sarti-Burgnich-Facchetti-Tagnin-Guarneri-Picchi-Jair-Mazzola-Milani-Suarez-Corso, divenuta sui libri Sarti-Burgnich-Facchetti-Bedin-Guarneri-Picchi-Jair-Mazzola-Peirò-Suarez-Corso, una filastrocca di scudetti e Coppe Campioni.

 

Erano gli anni Sessanta e il Mago Herrera capì che Lorenzo Buffon, portiere spettacolare, discontinuo e amatissimo dai tifosi, aveva fatto il suo tempo. Servivano novità, serviva qualcuno pignolo, incapace di provare timore reverenziale. Lo andò a prendere a Firenze e lo portò a Milano. In Toscana aveva vinto uno scudetto, perso una finale di Coppa Campioni, incassato le lodi di Alfredo Di Stefano. "Abbiamo vinto, ho segnato, ma solo su rigore. Quel portiere lì è un muro, sembra che non gli serva muoversi, sta sempre dove deve essere. Non ho mai visto una cosa del genere", disse a Marca, quotiodiano sportivo spagnolo. 

 

Quel portiere era Giuliano Sarti, l'essenziale. "Durante le prime partite", ricordò anni fa Giacinto Facchetti, "i tifosi inneggiavano ancora a Buffon: lo spettacolo dei suoi voli era finito. Poi capirono il suo valore e furono solo applausi". Sarti molte volte non aveva neppure bisogno di tuffarsi, la palla gli arrivava tra le braccia. Non erano però errori altrui, erano meriti propri, quelli di chi capisce prima dove si evolve l'azione, come si muoveranno gli avversari, dove finirà il pallone. E lì si faceva trovare, puntuale all'appuntamento.

Sarti parava e quasi sembrava fosse una normalità, quasi non ci fosse alternativa. Sbagliò poche volte nella sua carriera, l'ultima, la più clamorosa, segnò la fine sua e dell'Inter. Era il primo giugno 1967, era l'ultima partita di quel campionato e i nerazzurri avevano un punto di vantaggio sulla Juventus. A Mantova la Beneamata non poteva non vincere, troppo il divario tecnico. Arrivò però il sessantasettesimo del secondo, arrivò uno scatto sulla fascia di Gege Di Giacomo, un cross innocuo, un pallone che sfugge dalle mani solitamente ferme, una rete che si gonfia. Sarti incredulo si appoggiò al palo. L'Inter perse, la Juventus no.

 

Quel giorno dall'altro capo del campo, a difesa dell'altra porta c'era un ragazzo del quale parlavano un gran bene: Dino Zoff. Il portiere friulano fu l'unico a seguire l'esempio del grande portiere che aveva davanti, l'unico erede di un modo unico di stare in campo, di difendere la porta, un modo essenziale, basato sulla geometria, sull'intelligenza che quasi rifiuta il movimento. "Sarti e Zoff erano portieri di fiuto, con una capacità naturale di prevedere il futuro, quello dell'azione, ma non solo. Capivano e per questo agli spettatori sembrava che tutto fosse facile. Non era così però", scrisse nel 1983 Giorgio Tosatti.

 

Sarti oggi lo hanno descritto come un portiere moderno, non lo era. Non lo era come non lo era Zoff. Era un portiere come pochi ce ne sono stati, un portiere geometrico e incredibile, senza precedenti e senza successori.