Foto Marco Rosi

15 anni dopo, essere interisti nonostante il 5 maggio

Pino Suriano

Cronaca di un reduce di Lazio-Inter. Chi mai avrebbe potuto interrompere quella passeggiata trionfale? Solo noi

Eravamo l’uno accanto all’altro, in “postazione”. Facevamo pipì nei servizi igienici dello stadio Olimpico, durante l'intervallo della partita. Era il 5 maggio 2002. Avevamo sciarpe e maglie di colore diverso, ma ci guardavamo come fratelli. Ricordo di aver scosso la testa mentre l'altro mi fissava, era davvero più distrutto di me: “Oh, noi c'a stamo a mette’ tutta... però Gresko!”.

    

Vratislav Gresko. Sarà lui alla fine la vittima sacrificale della più misteriosa epoché collettiva della storia del calcio, Lazio-Inter alla vigilia dello scudetto. Perché sì, è stata collettiva, ma dato che abbiamo bisogno di dare un nome al colpevole delle nostre tragedie, quella volta Gresko è diventato il capro espiatorio.

   

Tutto è stato folle quel giorno. In mattinata avevo acquistato una maglietta con nome e numero di Cristiano Zanetti, gran giocatore italiano troppo poco celebrato e ricordato, insieme a una t-shirt fatta stampare per l’occasione dai tifosi della Lazio: "5 maggio 2002, io c'ero. Roma Campione è stata un'illusione". Io, che non pensavo alla Roma ma alla Juve, feci in mente un’altra rima: “5 maggio, io c’ero. Bastardo bianconero”.

   

Ebbene sì, io c'ero. Purtroppo. Ma non mi dite che è stata una beffa inattesa. Quella sconfitta la sentivo nell'aria da giorni. Ho vissuto il viaggio e la preparazione a quel momento con un pessimismo così cosmico e assodato che ero divenuto quasi sereno nella sconfitta. Forse perché avevo atteso tanto quello scudetto, mi stavo convincendo che non sarebbe arrivato.

   

Ero pessimista anche al mattino, appena sceso a Roma dopo un viaggio da Bari con un pullman che definire malridotto è un eufemismo. Davanti alla fontana di Trevi c'era una scena che i tg avevano annunciato e che avrebbe dovuto rincuorarmi: un’auto con tifosi laziali che ci salutavano festosi, come amici. Ma la più grande sorpresa fu una bancarella, stracolma di sciarpe impensabili: erano divise in due, metà con i colori della Lazio, metà con quelli dell’Inter.

   

Come non rassicurarmi? Chi mai avrebbe potuto interrompere quella passeggiata trionfale che tutti volevano, compresi gli avversari? Risposi tra me e me come solo un interista totale può rispondere, uno che dell’Inter conosce la possente follia e proprio per questo, forse, la ama così tanto: “Noi”.

  

La partita per me è durata settanta minuti di gioco (sì, solo settanta), trascorsi in quella parte di tribuna da cui si vedeva ben poco se non la fascia di campo a noi più vicina, quella che in quel primo tempo calcava il già citato Vratislav Gresko. Come ho vissuto quella partita? A dir la verità non c’ho capito nulla. Anzi, non ho sentito nulla. Il carico di aspettativa, il flusso di emotività dei giorni precedenti si erano trasformati in assenza di emozioni. Ai primi gol dell’Inter, arrivati troppo in fretta, troppo “brutti”, giuro che neppure ho esultato.

   

Il vero e unico colpo l'ho preso – questo lo ricordo bene – quando sul tabellone è comparso il risultato di Udine. Non sono il solo a ricordarlo: quel giorno sul tabellone abbiamo visto direttamente lo 0-2 della Juve, mai lo 0-1. Era un messaggio chiaro alla Lazio: “Giocate tranquilli, la Roma non sarà campione”. I calciatori (alcuni) lo recepirono, i tifosi no. Non ho mai capito perché. Forse una questione d’onore: “La vittoria della Roma, anche solo paventata, anche se ora è distante, non può avvenire per mano della Lazio. Neppure come tentativo incompiuto”.

  

Di quella partita, poi, tutti sanno tutto. Vieri (regalo di Peruzzi), poi Poborsky (che esulta con una rabbia che è una sfida ai tifosi), poi Di Biagio (corner regalato da Couto), poi l’assist magnifico di Gresko. Nel secondo tempo il mio pessimismo romantico è diventato scientifico, clinico, razionale, illuminista: quella squadra non può vincere. Una squadra ferma, addormentata, svuotata. A certificarlo il 3-2 del Cholo Simeone, senza esultanza. Nesta sembrava desiderare che il tocco di un compagno finisse nella propria rete, provava a fermarsi, ma la palla faceva lo stesso e così lui rinviava sulla linea: non poteva farla troppo sporca. Dagli spalti partì un coro che non dimenticherò: “La nostra fede/ non va tradita/ mercenari/ mercenari”.

  

Non tutti i giocatori della Lazio volevano vincere, ma quelli dell’Inter non avevano neppure la forza per farlo. C’era un misterioso sonno che offuscava le menti. Non era ancora arrivato il 4-2: il tempo per recuperare c’era tutto. E io a quel punto ho fatto un gesto che ancora non mi spiego. Sono sceso per le gradinate dell’Olimpico e ho lasciato lo stadio. Sono uscito. Mentre andavo via ho realizzato una cosa stupefacente: eravamo in tanti ad abbandonare la partita, centinaia di persone avevano fatto il mio stesso gesto. Tra questi, in un certo senso, anche gli undici nerazzurri sul prato, anche se non potevano uscire con noi.

  

A un certo punto ho visto una giovane donna guardare in basso, una gran bella donna peraltro. Ho realizzato bene l’immagine, sotto la sua gonna c’era qualcosa. Quel qualcosa era un bambino, sette anni al massimo. Si era nascosto lì per non vedere più il mondo, piangeva abbracciandola. Ho cominciato a piangere pure io. 5 maggio 2002: io c’ero. Purtroppo.

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