Alessandro Florenzi (foto LaPresse)

La grande proletaria

Alessandro Giuli
La Roma di Florenzi è come l’Italia neorealista di questi tempi, in attesa che il portiere di Berlino si distragga. Nessuno è in grado di spiegare quel che è successo l’altra sera, quando Alessandro s’è inventato quel capolavoro da metà campo, il pallonetto del nostro godimento assoluto e, al tempo stesso, il sigillo della nostra fottuta paura di uscire dall’Olimpico con le ossa in frantumi.

Nessuno di noi è ancora in grado di spiegare quel che è successo l’altra sera, quando Alessandro Florenzi s’è inventato quel capolavoro da metà campo, il pallonetto del nostro godimento assoluto e, al tempo stesso, il sigillo della nostra fottuta paura di uscire dall’Olimpico con le ossa in frantumi. Il mio amico Francesco, per esempio, è rimasto almeno un minuto immobile, pietrificato, forse non voleva che lo si svegliasse da un dolce improvviso coma etilico sopraggiunto in stato di totale sobrietà (quasi totale, diciamo).

 

 

Passo indietro. Alla vigilia di Roma-Barça la linea di condotta era questa: accontentarsi di non farsi passeggiare sopra la schiena dall’avversario, tipo l’anno scorso con il Bayern Monaco, accogliere con virile fatalismo una sconfitta di misura, magari un più che auspicabile 0-2, elogiare perfino il mister Garcia per quella trincea in stile Battaglia del Piave che era in preparazione da giorni. Niente fantasia, nessun arditismo cieco, tutti in difesa, e daje Bersellini daje. Così doveva essere, così è andata, in uno stadio silenziosissimo per via della persecuzione contro la Sud (l’hanno tagliata a metà con una vetrata sconcia, ma non ci sono stati tafferugli da ultras, a parte una mia aggressione verbale a uno steward troppo neghittoso). Il Barcellona ha sequestrato la palla e noi il cronometro, convinti che ogni minuto in più a reti inviolate ci avrebbe garantito, l’indomani, un ritorno alla vita sociale al riparo da eccessi di prese per il culo.

 

Il resto, la cronaca della partita e il prodigio di Florenzi, è cosa nota e balsamica. A modo suo è anche esemplare. Nella sfida con il Barça c’era una squadra italiana di medio-alto livello che, appena varcati i confini nazionali (in questo caso appena aperti i confini ai ricchi alieni di Catalogna), si rivela una proletaria del pallone esposta a un divario incolmabile. Unica eccezione: Dzeko, talmente superiore al resto della squadra che a un certo punto ho pensato fosse lì lì per andarsene, che ci stava a fare uno come lui in mezzo a quei dieci colleghi sopraffatti da una concentratissima paura di sbagliare?

 

[**Video_box_2**]E così la grande proletaria s’è mossa con intelligenza, cioè con la risorsa principale a disposizione. Non appena l’iniquo invasore s’è distratto, già sopra di un gol, invasato dalla propria bellezza narcisistica e magari pregustando un grasso bottino, il più operaio dei nostri, esile come una comparsa neorealista in un film con Anna Magnani, ha incredibilmente rotto il sortilegio dei superbi. Non voglio trovarci una morale, infatti una morale non c’è, però ’sta Roma mi ricorda un po’ l’Italia renziana nell’Europa germanizzata dei tempi ultimi, zitta zitta, in attesa che Berlino si distragga consentendoci d’improvvisare un pallonetto sui nostri conti spelacchiati e, se poi ci riesce, tornare a casa strombazzando con il clacson come se avessimo vinto la Champions, invece che la paura.

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