Alberto Contador (foto LaPresse)

Vince Gilbert nel giorno del capolavoro di Contador. Vandana Shiva contro il Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Il belga, già vincitore a Monte Berico, attacca nella discesa di Monte Ologno e vince a Verbania. La maglia rosa attacca in salita e guadagna un minuto su Mikel Landa e Fabio Aru, ripagando i due dello sgarbo nella tappa del Mortirolo. La corsa passa nelle terre di Miro Panizza, gregario che andava più forte dei capitani.


La tappa: Melide-Verbania, 172 km – Corse e rincorse, attacchi e inseguimenti, assoli. Due, davanti la fuga, dietro chi il Giro lo punta a vincere, davanti Philippe Gilbert, dietro Alberto Contador, davanti la vittoria di tappa, dietro il padrone del Giro. Il belga attacca in discesa dopo essersi gestito in salita, fa il vuoto sull'ultimo strappo, vince di nuovo, bissa Monte Berico. Lo spagnolo invece è quando la strada sale che disintrega gli avversari, controlla quando questa scende, guadagna un minuto, un altro. Gilbert brinda, sorrisi e Prosecco, Contador aspetta a farlo, intanto insegna ai battuti come un Giro va corso, come in corsa si sta.

 

Pianura, molta, ma all’inizio, dalla Svizzera all’Insubria, verso il lago, non più di Como o Lugano, Maggiore. Poi verso nord, su di un falsopiano infinito, verso le salite, Prealpi questa volta, ma irte, difficili, cattive. Monte Ologno, prima apparizione in corsa. Dieci chilometri, pendenze da doppia cifra per lunghi tratti, faticaccia per tutti, per chi è davanti a provare a vincere la tappa, per chi è dietro a inseguire. Due corse, c’è chi pensa alla giornata, chi alla classifica, in mezzo Alberto Contador, la sua maglia rosa, la sua danza sempre sui pedali, elegante, solitario. L’attacco è sulle prime rampe, immediato, una sorta di vendetta, di rivalsa. Il ricordo a quanto successo sulla discesa dell’Aprica, la foratura, l’attacco della Katusha con Landa e Aru a ruota. Questa volta è Landa a rimanere indietro, Contador ad andarsene, solo. Un’azione potente, una lunga volata ascensionale, rabbiosa, certo, ma intelligente. Lo spagnolo fa il vuoto prima, controlla poi, aspetta infine il canadese Hesjedal prima di scollinare, perché l’arrivo è lontano 32 chilometri dall’arrivo, la discesa lunga, ma non regolare, con strappi e falsopiani. Potenza e furbizia, Aru annoti, così si vincono le grandi corse.

 

L’altro Giro di Maurizio Milani


 

Oggi i corridori sono stato obbligati ad assistere a una conferenza di Vandana Shiva sui cambiamenti climatici causati dalle industrie sementifere e dalle aziende di biciclette. Alcuni atleti hanno osato dire: “Era meglio fare una tappa di 270 chilometri che sentire questa lagna”. Alcuni intellettuali comunisti nel sentire questi commenti si sono offesi. Per me hanno ragione i ciclisti.

 


 

Amarcord – Il lago Maggiore è mezzo Piemonte e mezza Lombardia, il confine al centro, specchio d’acqua tra montagne. Biella da un lato, Varese dall’altro. La tappa da Varese passa, verso Biella si dirige, per salire a nord, verso Arona, Stresa, Verbania, la parte nobile e regale, quella da copertina, verso le Alpi. Da un lato le ville, la villeggiatura estiva, dall’altro l’Insubria delle fabbriche, il varesotto operaio, da una parte il biellese calcistico, dall’altra la Lombardia a pedali. Varese è terra di ciclismo: Luigi Ganna, primo vincitore del Giro d’Italia, da Induno Olona, Alfredo Binda, primo a vincerne 5, da Cittiglio, e poi Michele Mara, Claudio Chiappucci, Ivan Basso, Stefano Garzelli. Grandi atleti, vincenti, capitani, nati a nemmeno 40 chilometri  l’uno dall’altro. Poi gli altri, tanti, gente da fatica, chilometri, vento in faccia, gente da poche vittorie e tanto lavoro, gente che parla poco, perché quando si è a tutta le parole non escono, gregari. E poi Miro Panizza, che gregario è stato, quasi sempre, e quasi sempre si è trovato ad andare più forte dei capitani. Piccolo, un metro e sessanta, leggero, 50 chili scarsi, scalatore da tirate, uno che doveva fare ritmo per stancare gli avversari, fare selezione, lanciare il capitano di turno. Michele Dancelli, nel 1967, fu il primo, Silvano Contini, nel 1985, l’ultimo, in mezzo due generazioni di grande ciclismo, da quella dei Merckx e Gimondi, a quella dei Moser, Saronni e Hinault. Diciotto Giri d’Italia, record, cinque Tour de France.

 

Miro, che poi era Wladimiro, per Lenin, ricordo del padre partigiano e comunista, era battistrada, apripista, in salita scandiva, accelerava, si esauriva, si spostava e lì toccava al capitano. Così ad ogni inizio Giro, perché Miro capitano lo è stato solo due anni, sempre nei dieci, mai una vittoria, perché i corridori come lui non vincono, danno spettacolo sicuramente, ma a braccia alzate sotto un traguardo, per un motivo o per l’altro, non ci arrivano mai. Il problema è che sei logoro prima di vento e chilometri, segnato e segato quando gli altri iniziano a fare sul serio. Questa è la vita del gregario.

 

[**Video_box_2**]Miro di questo se ne fregava, perché se sei cresciuto senza un soldo, ti sei svegliato alle quattro del mattino, percorso 40 chilometri in bicicletta per andare al lavoro, hai lavorato per 10 ore e ti sei rifatto altri 40 chilometri per ritornare a casa, capisci che la vita del corridore è comunque un lusso. Miro se ne fregava della fatica, prendeva fiato e saliva con il suo passo ed era passo spedito, veloce, potente, con quel passo recuperava sul gruppo, staccava altri capitani, riprendeva il suo, lo aiutava di nuovo. A volte capitava che lo staccasse pure, allora doveva diminuire l’andatura, aspettarlo, andare avanti insieme. A volte capitava che a far ritmo staccasse tutti, rimanesse solo, e lì stava al direttore sportivo essere magnanimo, decidere se fermarlo o farlo partire, e quasi sempre era un rimani, non muoverti, altre un se riesci provaci, come sul Monte Maddalena nel Giro 1975, come sul Bondone tre anni dopo, come a Pau nel Tour del 1976: vittorie.

 

A volte capitava che era il capitano a non farcela a stare dietro a Miro. Nel 1980, a 35 anni, passa all Gis, capitano Saronni, vincitore del Giro l’anno prima. L’obbiettivo è il bis, ma con Bernard Hinault è dura. Beppe vince sette volte, a cronometro dà paga pure al francese, ma in salita si accorge di non andare. Battere il Tasso è difficile, possibile solo se lo si fa sbagliare, se lo si innervosisce. La tattica allora è una sola: Miro a marcare il francese, a stargli a ruota e tutti gli altri con Beppe. Panizza non se lo fa dire due volte e non si stacca da Hinault. Hinault attacca, i suoi scatti sono rasoiate, ma Miro è sempre lì, dietro, impassibile. A Orvieto se ne va pure in fuga e sopravanza tutti gli uomini di classifica. A Roccaraso, Hinault è una furia, Miro serafico non perde un metro. Al traguardo è maglia rosa, la prima. Non molla Miro, e l’Italia fa il tifo per lui. Supera indenne le Dolomiti, ma sullo Stelvio il francese e il compagno Bernadeau se ne vanno, Miro fatica, prova a resistere, ma senza compagni di squadra è dura arrivare a Sondrio. E lì che perde la maglia e il Giro, è lì che l’Italia si sveglia dal sogno del Miro d’Italia, è lì che capisce che quelli come Miro non possono vincere, perché sarebbe fiaba, mentre il ciclismo è epica.