Giuseppe Conte durante un incontro con Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

Com'è difficile tagliare le imposte con i soldi di Bruxelles

Lorenzo Borga

Le raccomandazioni della Commissione europea vanno in un’altra direzione. La necessità di pensare al futuro

È partito l’assalto alla diligenza. Una porzione della politica italiana ha già deciso come spendere i soldi che non sono ancora arrivati, né è certo arriveranno, dalla Commissione europea. Luigi Di Maio fin dal giorno prima dell’annuncio della proposta di Von der Leyen aveva circoscritto la priorità su Facebook “ora abbassiamo le tasse”, e poco più di tre ore dopo la presentazione del piano era ritornato sull’argomento: “Ciò che oggi possiamo dire con certezza è che una buona parte di questi fondi li dovremo usare con uno scopo ben preciso, chiaro: abbassare le tasse. Abbassare le tasse per aiutare imprese, famiglie, artigiani, commercianti, lavoratori”. E con lui si è schierato tutto il Movimento 5 Stelle.

 

Non si può (forse)

Ma questo, probabilmente, non sarà possibile. Nei giorni scorsi la Commissione europea ha chiarito che l’utilizzo dei “grants” – se la sua proposta si concretizzerà – dovrà essere autorizzata prima che vengano trasferiti ai singoli paesi. Il controllo ex-ante sarà sulla coerenza dei piani presentanti dagli stati membri rispetto alle priorità dell’Unione Europea (in particolare l’attenzione allo sviluppo del digitale e della crescita economica sostenibile) e alle raccomandazioni che ogni anno vengono comunicate ai singoli paesi. A controllare dovrebbero essere insieme la Commissione e un comitato dove siederebbero i rappresentanti di tutti gli stati membri. Anche Olanda e Austria avranno quindi voce in capitolo sulle scelte di spesa dei paesi mediterranei. Il controllo sarà anche ex-post, prima dell’erogazione delle rate del finanziamento: come ha spiegato David Carretta su queste pagine, chi non rispetta gli impegni e il calendario delle riforme non riceverà le ulteriori tranche di aiuti. La velocità sarà infatti un altro elemento di valutazione: il 60 per cento della spesa dovrebbe essere portata a termine entro il 2022, pena l’impossibilità di ricevere nuovi fondi.

  

Ma quali dovrebbero essere nel concreto le linee guida per la spesa dell’Italia? A metà maggio la Commissione ha inviato al governo italiano le ultime raccomandazioni. Secondo i commissari il nostro paese dovrebbe sviluppare una strategia a medio-lungo termine per gli investimenti nel sistema sanitario in particolare per risolvere i colli di bottiglia che si creano nella fase di formazione e reclutamento dei nuovi medici e infermieri, come ha reso evidente la pandemia di Covid-19. Sul lato del welfare, il supporto ai più poveri non garantisce un accesso ai sussidi efficace ed esclude molte persone vulnerabili. Il mercato del lavoro ancora rimane ostico per i giovani lavoratori e le donne, che fanno fatica a trovare spazio e causano un livello di occupazione (64 per cento) ancora troppo basso. E per risolvere il problema non bastano, secondo l’Europa, i centri per l’impiego che sono sotto finanziati e inefficienti mentre i servizi per l’educazione durante l’infanzia, come gli asili nido, che rimangono ancora poco finanziati e integrati. Anche crescendo, la condizione degli studenti italiani è spesso svantaggiata rispetto ad altri paesi: il livello di abbandono scolastico è superiore alla media europea, il numero di laureati in materie scientifiche e ingegneria è ancora troppo basso, come anche le iscrizioni all’università. Ma non sono solo scuola e università il problema: anche le imprese non investono a sufficienza in tecnologie e in formazione. La Commissione europea, nelle sue raccomandazioni, non si lascia sfuggire anche un tasto dolente della pubblica amministrazione: il ritardo nei pagamenti da parte di ministeri, regioni e comuni verso i fornitori privati, nonostante negli ultimi anni siano stati compiuti progressi considerevoli. E poi gli investimenti, sia pubblici che sono ancora troppo pochi, sia privati, e rendere più efficiente il sistema giudiziario che, a confronto con altri paesi europei, richiede tempi che solo a leggerli provocano imbarazzo.

 

Nel documento mai una volta viene citata la necessità per il nostro paese di tagliare le imposte, né sui redditi delle persone fisiche, né su quelli delle imprese. Come invece viene consigliato di fare alla Francia, a cui la Commissione ha raccomandato di “semplificare il proprio sistema fiscale”. Sarebbe quindi complicato giustificare una riduzione delle imposte con i soldi di Bruxelles, a meno che in fase di negoziazione della proposta non vengano modificati i criteri di accesso e di utilizzo dei fondi, magari su proposta del governo italiano. Un’ipotesi molto improbabile, ma mai dire mai.

  

Meglio di no

Ma tagliare le imposte con i soldi del Recovery fund potrebbe essere una cattiva idea a prescindere dalla fattibilità della proposta. Per quanto sia diffusa la convinzione che i fondi che verrebbero erogati dalla Commissione tra i “grants” siano “a fondo perduto”, ciò non significa che questi non debbano essere restituiti almeno in parte. Non è ancora deciso quale sarà lo strumento, se un gettito fiscale derivante da imposte introdotte e gestite dalle istituzioni europee, oppure un aumento dei contributi nazionali al bilancio europeo di cui l’Italia paga il 13 per cento. Dunque, applicando la stessa quota del 13 per cento ai 500 miliardi che verrebbero stanziati per i trasferimenti e sussidi ai paesi, al nostro paese toccherebbe ripagare 65 miliardi degli 82 che per ora sono previsti nella proposta. Il risultato netto per il nostro paese sarebbe pari a circa 17 miliardi di euro. Certo, i soldi da spendere arriverebbero subito mentre le restituzioni avverrebbero con tempi più lunghi, sembra fino a 30 anni. Ma alla fine dei giochi, questi saranno i conti. Alcuni economisti, come Silvia Merler, hanno ipotizzato un contributo netto al nostro paese più alto, pari a 32 miliardi di euro, come se l’Unione Europea si restituisse in un colpo solo circa 8 anni di contributi netti che l’Italia ha pagato al bilancio comunitario. Ma al di là delle cifre è un altro l’aspetto che conta: non è possibile finanziare un taglio delle imposte con soldi che dovremo in buona parte restituire. Significherebbe tagliare le tasse a deficit, a meno che non si trovino altre risorse tagliando la spesa pubblica. Perché da qualche parte quei soldi andrebbero presi. Peraltro anche i 17, o 32, miliardi che rimarrebbero allo stato italiano sarebbero un trasferimento una-tantum: cioè versato all’Italia una sola volta. Il taglio delle imposte invece esige finanziamenti annuali, poiché lo sconto fiscale si applica ogni anno su contribuenti e imprese. E ancora una volta dunque significherebbe trovare soldi a deficit per tagliare le imposte.

 

Non sprecare l’opportunità

Vista la natura irripetibile e una tantum della proposta, i soldi che riceveremmo dalla Commissione Europea andrebbero invece utilizzati per investimenti e riforme che diano i propri frutti nel tempo. Per costruire un ponte, o connettere alla fibra ottica una scuola, serve una spesa che inizia e termina nel tempo necessario alla costruzione, non si tratta di un costo strutturale che si ripete anno dopo anno. Peraltro il nuovo programma della Commissione è stato chiamato “Next Generation EU”. Andrebbe dunque destinato alla prossima generazione europea, come indica il suo nome, per evitare che l’enorme crisi economica dovuta al Covid si ripercuota sui più giovani, come già successo con la Grande Recessione del 2008. Tagliare le imposte, per quanto necessario per alcune categorie, darebbe invece un beneficio immediato alle persone che già oggi lavorano e guadagnano nel nostro paese. E soprattutto, e questo è il sospetto più grande, un beneficio immediato a forze politiche in crisi di identità che hanno spesso fondato sulla gestione del bilancio pubblico il proprio successo elettorale.

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