Ansa, Montecitorio illuminato di rosso per l'eliminazione della violenza contro le donne

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Collocare il nemico fuori e ritrovarsene uno dentro

Donatella Borghesi

Decenni di femminismo trionfante, ma spesso l’ostacolo alla libertà e all’amore per sé è tutto interiore. Dal troppo poco amore per il corpo femminile vilipeso alla mancanza di autostima senza la quale le donne si sentono sempre sbagliate. Ragazze, rileggete Jung 

Ci volevano Luca Guadagnino e la sceneggiatrice Nora Garrett con il loro “After the hunt” a rimettere in scena, oltre a quel che ribolle nelle università americane, il conflitto esistenziale tra uomini e donne. Nel film Alma insegna filosofia all’Università di Yale, e da tempo aspira alla cattedra, Maggie è una sua dottoranda black, figlia tra l’altro di un padre ricco che sovvenziona l’ateneo, Hank è un brillante e scalpitante assistente quarantenne. I rapporti tra di loro si ingarbugliano quando Maggie chiede protezione ad Alma: la sera di quella bella discussione filosofica nel salotto della prof e del suo simpatico marito psicoanalista, la ragazza ha subito molestie sessuali (forse stupro?) da parte di Hank, che l’ha imprudentemente accompagnata a casa (il politicamente corretto glielo vieterebbe). Denunciarlo o no? È il legame ambiguo e contraddittorio tra le due donne a dominare il film, ognuna ha i suoi segreti e i suoi non detti, e il fantasma della violenza sessuale le tiene entrambe prigioniere. Così come ne siamo tutti prigionieri quando ci troviamo davanti alle dinamiche dell’ennesimo femminicidio. Tutti con lo stesso copione, un’overdose di sequenze sempre uguali. La donna non lo aveva denunciato, scrivono le cronache. Lei non ha rifiutato l’ultimo incontro. L’eterna sindrome della crocerossina. Il maschio che non accetta l’abbandono. Frasi facili diventate insopportabili luoghi comuni. Certo, ci sono le lungaggini delle istituzioni, i braccialetti elettronici che non funzionano, i codici rossi che non scattano anche quando il senso di pericolo è manifesto. Ma ci deve essere qualcosa di più, e ce lo siamo chiesto soprattutto quando a finire accoltellata è una giovane donna come Pamela Genini. Non solo bella, bellissima, per di più indipendente, una donna che insegue una realizzazione professionale, ha desiderio di promozione sociale, e forse pensa di poter utilizzare per questo obiettivo il suo amante assassino. Ma perché non ha fiutato il pericolo, perché non si è difesa, per quel naturale istinto di autoprotezione di ogni essere vivente? Perché non l’ha denunciato? Perché l’ha lasciato e ripreso mille volte? Perché andare incontro a una sorta di sacrificio primigenio? 

Ci voleva una psicoanalista junghiana per immettere nella discussione un concetto estraneo alla contrapposizione binaria tra vittima e colpevole. Lo ha fatto Pani Galeazzi in un denso e caldo libro appena uscito, Accendere il buio. Donne in dialogo con il nemico interno (edito da Mimesis/Philo-Pratiche filosofiche). Ecco la parola magica, nemico interno. E per questo sconosciuto nemico di cui siamo del tutto inconsapevoli, anche nel nuovo supertecnologico e postumano millennio, preparato da milioni di Superwomen e Donne in carriera, ci ritroviamo a somigliare a quelle sprovvedute fanciulle uccise nei bassifondi delle città nebbiose come prede indifese. Modello feuilleton ottocentesco, senza il cavaliere che arriva in tempo a salvarle… Torniamo così allo stereotipo più umiliante e fastidioso, dopo decenni trionfanti di femminismo. Dopo migliaia di libri, di testimonianze, di lavoro collettivo tra donne, di Non Una di Meno, di manifestazioni oceaniche e globali il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Eppure, nonostante tutto ciò continuiamo a vedere nella comunicazione mainstream sulla violenza maschile centuplicata dai social lo stereotipo della vittima, raggiungendo punte desolanti di pornografia della violenza. Proviamo a capire allora questo incomprensibile scarto cognitivo e simbolico con lei, la psicoanalista Pani Galeazzi. Il suo è un libro narrativo, emozionale, tutto costruito sulla sua esperienza professionale, dove la direzione in cui procedere gliela indicano i racconti e i sogni delle pazienti. Donne che non hanno compassione per sé e che devono imparare ad amarsi e a dar voce alla loro creatività. Donne che devono smettere di sentirsi sempre sbagliate, di travestire i propri desideri in devozione agli altri e di chiamare amore la sottomissione. Ma si può curare l’inguaribile se io sono il mio censore, il mio boia? Perché quando qualcuno ti maltratta non meriti l’amore, dici a te stessa. Sottotesto, la colpa è anche mia. E’ quello che rilevano nella pratica dell’ascolto le tante volontarie che lavorano nei centri anti violenza, scegliendo l’anonimato per garantire sicurezza alle assistite. Se spesso le donne maltrattate accampano motivi materiali per non arrivare alla denuncia o ritardarla sempre più – sono costretta ad abbandonare la casa, poi cosa succede ai miei figli – la vera resistenza è interiore, è quella di dover rinunciare al proprio ruolo di cura, anche di un uomo violento. Perché prendersi cura vuol dire darsi valore, è il ruolo sociale primordiale del femminile riconosciuto da tutte le culture. Io sono buona, non posso fargli del male. Ed è per questo che nei centri antiviolenza si lavora prima di tutto sul recupero dell’autostima.    

Uno dei grandi meriti del femminismo, dice la nostra psicoanalista, è quello di aver potuto collocare il nemico “fuori”, come una controparte esterna, chiara e definita: il maschio, la cultura patriarcale, la diffusa misoginia psichica e sociale. E la campagna del #Metoo, con l’aumento esponenziale delle denunce anche postume delle molestie e violenze sessuali, è stato l’ultimo atto di questo processo inarrestabile: dire, nominare, denunciare. “Finché il nemico sta fuori puoi sempre dire che la colpa è dell’altro”, dice Galeazzi. “Accade ora che molte donne più o meno affrancate, liberate, si ritrovino a combattere non più o non soltanto con un nemico fuori, ma con un inquietante nemico interno, in una sorta di incastro collusivo con la figura maschile. Un incastro inconscio, un potente richiamo a tornare a occupare, al di là di ogni razionalizzazione, il posto dolorosamente noto di vittima. Questo spiega perché tante donne che sono state maltrattate allacciano nuove relazioni con partner ancora una volta violenti e distruttivi”. E’ il “self-hater” - letteralmente l’odiatore di sé, di cui parlava Doris Lessing nei suoi romanzi. L’odio è più antico dell’amore, diceva già Freud… Divenne un bestseller nel 1999 Donne che si fanno male della psicologa inglese Dusty Miller: l’aggressività quando viene inibita diventa autolesionismo e masochismo. “La diffusa difficoltà a dire no sembra coincidere con una incapacità interiorizzata a difendere i confini, corporei e psichici, di tempo e di spazio. Un circolo vizioso che porta a sentire un Sé mortificato e privo di valore che non può essere soggetto di desiderio, con il rischio che si scambi per amore la sottomissione erotizzata”. Accanto all’apparente libertà sessuale esibita come conquista, c’è in realtà una fragilità del sé. Che è quello che spesso succede negli episodi di stupro, con il limite sempre labile e controverso del concetto di consenso, diventato ormai termine giuridico, e ben venga che sia messo nel ddl sulla violenza, finalmente con una convergenza bipartisan. Ma resta un malinteso costitutivo, relazionale, soprattutto per le più giovani. La sicurezza apparentemente sfrontata di sé - affidata alla propria immagine perfezionata con il bold glamour, il filtro prodotto dall’intelligenza artificiale, e offerta in dono al pubblico dei social - nasconde una confusione interiore. La conosciamo bene la guerra che fanno contro sé stesse le giovanissime, sono tutti abusi autoinferti. Eccesso di alcol e droghe, tagli, interventi chirurgici. Anoressia, depressione, tentativi di suicidio (tratta questa epidemia con consapevolezza e immensa delicatezza Teresa Ciabatti nel romanzo Donnaregina, che adombra la storia della figlia adolescente). Dice una paziente alla sua terapeuta Pani Galeazzi: “Ci sono il piccolo io-bambina impaurita, l’orribile io-che-si-taglia, l’io-sfinito che dice non posso smettere”. E un’altra pensa di sé: “Predisposta alla tortura, massacrata massacrante”.

Ed eccoci al grande protagonista, il corpo femminile vilipeso per troppo/poco amore. Un corpo-oggetto anche ai nostri occhi, impariamo molto presto a usarlo o a difenderlo. Fin da bambine abbiamo scoperto che il nostro corpo ha un potere, constata Pani Galeazzi. “Il nostro essere femmine si costituisce intrecciato alla percezione del perturbante che portiamo in noi. Portiamo, come se fosse naturale, un senso di pericolo nel corpo. Ma anche il prepotente desiderio che l’altro ti desideri”. E’ come se lo guardassimo sempre dall’esterno: possiamo barattarlo per ottenere qualcosa in cambio. Possiamo nasconderlo o enfatizzarlo. Possiamo passare dal gioco seduttivo alla connivenza forzosa, fino ad accettare anche la violenza. Ora che il sesso non è più un tabù, l’unico tabù sopravvissuto è l’affettività, dire “ti amo” sembra più scabroso dell’intimità sessuale. Ma quanta energia libidica è necessaria per imparare a usare il proprio corpo e quello dell’altro? E qual è l’ombra di questa libertà? La scrittrice e sceneggiatrice Valeria Montebello, autrice del podcast “Il sesso degli altri”, fa dire alla protagonista del suo romanzo Succede di notte: “L’ennesima foto postata alle tre di notte alla disperata ricerca di attenzioni era la testimonianza del mio fallimento totale: come donna, come amante, come femminista”. Nel film Baby girl della regista olandese Halina Reijn, la protagonista Nicole Kidman, premio a Venezia per l’interpretazione, è una donna di successo che si coinvolge in una relazione pericolosa con un giovane stagista, che ne ha intuito le richieste masochistiche: per lei l’orgasmo arriva con la sottomissione. Rivelatore il dialogo finale tra i due uomini, il marito e il ragazzo. Un desolato Antonio Banderas grida al giovane amante di sua moglie che il masochismo femminile è una costruzione del patriarcato, mentre l’altro gli risponde: sei rimasto indietro, non è più così. 

 

Nel suo percorso per “accendere il buio” – era stata la risposta della figlia di tre anni al suo “adesso spengo la luce” – Pani Galeazzi ha usato il patrimonio della sua formazione junghiana. Non è certo un dettaglio. Carl Gustav Jung con la sua rottura semantica e psichica della differenza tra maschile e femminile – l’anima è l’aspetto femminile inconscio nell’uomo, l’animus quello maschile nella donna, ci giochiamo i due archetipi nella relazione reciproca – ha illuminato il possibile incontro fecondo tra i due sessi, fonte di ricchezza spirituale per entrambi e per il mondo. È allora con gratitudine che possiamo leggere l’ultimo libro di Sandra Petrignani, Carissimo dottor Jung, appena uscito per Neri Pozza. Petrignani non nasconde di aver fatto un’analisi junghiana, e di aver pensato a questo libro da venticinque anni. Un libro necessario per fare i conti con la vita e con la morte. Lo spunto narrativo è quello di essersi imbattuta nella figura dell’americana Christiana Morgan, paziente dell’affascinante Jung negli anni Venti. Petrignani si immagina Lady Morgana, così la chiamava herr doktor, che torna a trovarlo quarant’anni dopo, quando lui, già anziano, vive nel suo regno di Kusnacht sul lago di Zurigo, la dimora turrita che si era costruito da solo. Jung sta cercando di finire il saggio sull’inconscio, che dal suo lavoro in poi sarà inconscio collettivo per tutti. Si era sempre circondato di donne, e da loro aveva molto appreso. La paziente Sabina Spielrein, con cui ancora giovane ebbe una relazione decisiva per il suo pensiero, la moglie Emma, l’amante Toni Wolff, anche lei psicologa (“Toni parlava la lingua del suo inconscio”) che poi divenne una presenza costante nell’allargata famiglia reale e psichica, e poi le collaboratrici di tutta una vita, come Marie-Louise von Franz, ex paziente e a sua volta analista, autrice di rilevanti studi sulle fiabe, e Ruth Bailey, scelta da Emma come accompagnatrice degli ultimi anni del marito, chiamato con affetto “vecchio impostore”. Lady Morgana, con i suoi abiti colorati e i braccialetti tintinnanti, era stato l’amore mancato, diceva lui. Scrive Petrignani: “Perché l’amore l’aveva sempre preso alla sprovvista travolgendolo e poi se ne sbarazzava scrollandosene di dosso come un caprone, lo ammetteva, senza curarsi delle conseguenze”. Ma il legame psichico lo custodiva con devozione. A Lady Morgana, che cerca di liberarsi dalla dipendenza dal maschile, dà consigli sul difficile rapporto con gli uomini che amava: “Dovresti essere felice di essere una donna. La mente femminile produce abbaglianti interpretazioni, la sensibilità femminile è capace di profonde intuizioni. Personalmente sono stato condizionato, influenzato, arricchito dal pensiero di tante donne, non sarei quello che sono senza la loro ispirazione e il loro lavoro. Come a te debbo le preziose riflessioni che mettesti in moto traducendo in immagini il tuo personale dialogo con l’inconscio”. Sono quelle che poi Jung rielaborò nel suo famoso Libro Rosso. Ecco, ragazze, Sandra Petrignani ci invita a riprendere in mano Carl Gustav Jung, che le donne le conosceva bene. E magari, in una prossima puntata, interrogare gli uomini, che oggi sul loro nemico interno ci appaiono così disperatamente muti.

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