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Tutti in coda. Il significato del mettersi in fila oggi
Un rituale consumistico, ma anche una brutale necessità per chi soffre la fame. Qualche istantanea sociologica
Due ore e quattordici minuti di fila, piovigginava pure, per vedere la mostra-del-momento a Parigi: “Georges de la Tour. Entre ombre et lumière”, cioè tra luci e ombre che nel momento in cui diventano titolo di giornale significa che nel pezzo non c’è la notizia, come diceva con lessico molto più spiccio il grande Lamberto Sechi, ma stavolta è sintesi azzeccatissima, perché per il maestro del chiaroscuro francese, emulo di Caravaggio, non ci sono biglietti disponibili fino a novembre e dunque chi ha del tempo disponibile tenta la sorte nell’assembramento dei “sans ticket”, che è la versione intellettuale e contemporanea dei sans culotte. Siamo almeno un centinaio lungo il muro di cinta del museo, il Jacquemart-André di boulevard Haussmann, cioè il palazzo-capolavoro della coppia di collezionisti più ricca e peggio assortita della Parigi della Belle Epoque (lui banchiere protestante, minato dalla sifilide, emiplegico; lei cattolica, pittrice di chiara fama con una spiccata predilezione per le donne e per l’arte italiana del Rinascimento: le malelingue la chiamavano “la Vergine della seggiola”).
Nessuno aveva ancora visto così tanti dipinti del pittore prediletto di Luigi XIV tutti insieme, per cui la fila dei visitatori di serie B nella quale mi trovo in una mattina di ottobre e dove non intendo farmi forza del tesserino per scavallare perché mi pare ignobile e una telefonata dell’ultimo minuto all’ufficio stampa anche peggio, è molto ben attrezzata: c’è chi legge un romanzo con una mano tenendo abilmente aperto l’ombrello con l’altra, chi fa riunione al telefono, chi canticchia sottovoce, le cuffiette alle orecchie. Due signore anziane solidissime sulle gambe terranno botta fino a quando il buttafuori a guardia della porte cochère che immette nel giardino solleverà il cordone di velluto rosso e un gruppetto dopo l’altro - ne viene ammesso uno ogni due ore circa - potremo finalmente guardare da pari a pari i visitatori “avec ticket” della fila opposta, che procede normalmente, pervasi da quel senso di liberazione e di vittoria che corona le file riuscite e che, credo, sia alimentato dalla convinzione subitanea che il tempo sospeso vissuto in quel limbo sia servito a qualcosa di buono, predisponendoci di conseguenza a dire di sì a qualunque cosa seguirà, leggeri e grati. Forse è questa la ragione per la quale ormai non solo ci mettiamo di nostra spontanea volontà, ma veniamo continuamente indotti a intrupparci, in ordine e composti. I marciapiedi dei centri cittadini sono disseminati di cordoni e di paletti di ottone vigilati da guardie severe (valletti gallonati per le boutique delle vie dello shopping), che gestiscono flussi veri o anche inesistenti, spesso autoindotti perché fra i modelli basici del comportamento umano vi è anche l’istinto imitativo. Ore e ore in piedi, a spostare il peso da una gamba all’altra, per conquistare beni, oggetti e servizi di cui non abbiamo bisogno.
E’ iniziata con le file del primo lockdown fuori dal supermercato per comprare il lievito necessario al pane fatto in casa e di chiacchiere scambiate dietro la mascherina col vicino, in quei mesi che alcuni iniziano a rimpiangere, sebbene non sia andato tutto bene come scriveva anche il fruttivendolo di corso Garibaldi sull’insegna e ne siamo usciti incattiviti, rumorosi e animati da un senso immotivato di rivincita sul destino, insomma decisamente peggiori. In quei mesi, cioè mentre migliaia di persone dal volto semi-coperto aspettavamo di portarsi a casa uno sfilatino e un rotolo di carta igienica che fa sempre comodo, qualcuno deve aver capito che nell’Occidente ricco, annoiato e bisognoso di una causa qualunque per sentirsi vivo o, come dicono gli stilisti, rilevante, la fila viene percepita come il risveglio dell’istinto atavico di conquista che il benessere ci ha disabituati a concepire, essendo ormai, tutti, anticipati in ogni nostro bisogno reale o fittizio dal “feed” del nostro smartphone. Come dovrebbe essere evidente ma di questi tempi è sempre meglio precisare, la fila a scopo ricreativo col cane dell’amica in prestito a scopo di tutela del periodo pandemico o quella di oggi per la t-shirt a tiratura limitata della tale catena di moda a basso prezzo, non hanno nulla da spartire con quella dolente che ogni giorno, per diciassette mesi, la poetessa Anna Achmatova fece fuori dal carcere delle Croci a Leningrado per avere notizie del figlio Lev imprigionato con la sola accusa di essere il figlio di un dissidente giustiziato, terrorizzata che i pacchi che portava venissero respinti perché era il segno che fosse stato fucilato (il figlio venne liberato, gliene volle per tutta la vita perché convinto che avesse sfruttato l’occasione per scrivere il “Requiem” e diventare ancora più famosa).
C’è un divario di senso immenso e atroce fra le nostre file per strapagare un pupazzo Labubu, e l’accalcarsi disumano ai varchi di Gaza per la distribuzione del cibo; uno iato di senso dolorosissimo fra la coda per la “release” della t-shirt a tiratura limitata o la nuova shopper di Goyard e l’iconografia di certe immagini della Unione Sovietica pre-caduta del Muro di Berlino. Sono adulta abbastanza da aver visto con i miei occhi la Arbat e un certo negozio all’angolo, oggi occupato da una griffe del lusso occidentale oggi suppongo e spero chiusa, dal quale provenivano puzze indescrivibili di formaggi stantii e nonostante questo centinaia di persone vi sostassero davanti in silenzio per ore, in attesa di potervi accedere, scrutando oltre la vetrina resa opaca dal riscaldamento a carbone della città il progressivo assottigliarsi delle forme, calcolando se sarebbero riuscite nell’intento o sarebbero tornate a casa a mani vuote. Non si può confondere l’assalto ai forni della para-cronaca manzoniana con l’ammasso di gente urlante fuori della sfilata di Gucci o di Balenciaga per intercettare lo sguardo del tal divo del K-Pop, che prima o poi toccherà anche a noi cresciuti coi Pink Floyd imparare a riconoscere, se non altro per scansarci quando li vediamo avanzare con quello sguardo immoto sulla pelle bianchissima. Forse le dinamiche della massa sono sempre le stesse, come dicono i trattati di sociologia invitando a tenersene alla larga, ma non sempre la massa risponde alle stesse sollecitazioni, e quella delle file del Terzo Millennio occidentale consumista per noia, leggerissimamente aggressiva già in partenza, il guardi-che-ero-prima-di-lei, don’t try to skip the line, raccontano di noi e di che cosa siamo diventati almeno quanto il bisogno che sentiamo di frapporre sempre della banale musica di sottofondo al nostro silenzio e al nostro infinito scrollare.
Negli anni Settanta delle contestazioni vere e dei picchetti fuori dai cancelli della Fiat, nessuno sano di mente si sarebbe messo in fila per cinque ore per assaggiare i gusti proposti da una nuova gelateria milanese, come è accaduto alla fine della scorsa primavera, con i tg regionali inviati a intervistare i povericristi che ne uscivano felici, eroi dell’epica del cono pistacchio e bergamotto. Solo dieci anni fa, se avessimo dovuto metterci in coda per assaggiare la cacio e pepe della trattoria di moda ci saremmo insospettiti: in un posto che spacciava cibo lungo tutto l’arco della giornata, accaventiquattro come direbbe il cafone contemporaneo, doveva esserci una qualche fregatura, il cibo essere per forza precotto.
Oggi che, miracoli della tecnologia, il cibo viene abbattuto e basta dargli una ravvivata sulla fiamma per farlo sembrare preparato espresso, sotto casa mia le file di turisti che aspettano di mangiare una cacio e pepe che vedo consegnare rigida ogni mattina prestissimo nella sua brava busta di plastica talvolta mi impediscono di uscire dal portone, devo chiedere il permesso per passare. Ogni volta ho la tentazione di indirizzarli a una trattoria che cucina un risotto favoloso, dopotutto siamo a Milano, il cacio non è produzione padana, dieci metri oltre le finte “nonnas” (“look at the nonnas”, e giù foto) che tirano lo stesso panetto per l’intera giornata come Penelope con la tela, ma sarebbe tempo perso: è chiaro che la fila fa parte della “experience”, insieme con il selfie una volta conquistato il tavolo e lo scatto della cacio e pepe fatto chissà quando, chissà dove.
In una società dove tutto è istantaneo e Wind fa una pubblicità con le voci al ralenti per ricordare che le sue connessioni sono perfette e che non si perderà un solo secondo a fissare la rotellina che gira a vuoto sullo schermo perdendosi il calcio essenziale della tal partita, l’attesa per vedere quelli che Molière avrebbe chiamato “les gens de qualité” alla sfilata di Balenciaga e che il caporedattore cronaca del quotidiano romano liquida come “i vipponi” non fa nemmeno parte del gioco, è il gioco stesso. Fare la fila non è più quel ripiego da sfigati che noi X generation schifavamo, perché i fighi saltavano le file come testimoniavano miliardi di foto scattate davanti allo Studio 54, con la gente che si scansava perché arrivava Bianca Jagger a cavallo. La fila di oggi non è il massimo del disvalore e del disdoro individuali, sono talmente disgraziato che il buttafuori non si precipita a lasciarmi passare inchinandosi, vedi Jennifer Lopez respinta alla boutique Chanel di Istanbul, ma il suo contrario.
La mezza giornata trascorsa in piedi osservando le caviglie gonfiarsi ma pervasi dal senso di felicità per le gioie che verranno è il nuovo fuoco tribale attorno al quale si celebrano i riti del consumismo declinante, il moltiplicatore del senso di comunità che abbiamo perso dal giorno uno della rivoluzione industriale ma che genera l’appartenenza di cui a questa latitudine abbiamo bisogno. Inoltre, e qui l’antropologo parlerebbe certamente di evoluzione delle pratiche iniziatiche delle società tradizionali, fare la fila per qualcosa che molti altri vogliono rappresenta una tradizione urbana faticosa, condivisa, che genera forse attriti, ma di certo anche un senso di equità, il siamo-tutti-sulla-stessa-barca e di complicità (con le due anzianissime dietro di me al museo abbiamo in effetti chiacchierato a lungo).
La nostra, la mia percezione sul moltiplicarsi delle file come strumento di marketing per aumentare la sensazione di rarità in un mondo dove tutto è disponibile, a portata di mano e di portafoglio, ha come sempre il suo avallo scientifico, nella fattispecie una ricerca dell’Università di Stanford, piuttosto recente, secondo la quale il 73 per cento delle persone si sente più motivato, certamente più interessato, a comprare qualcosa se vede altri, molti altri ancora meglio, in attesa paziente di procurarsela. Davanti un negozio vuoto, prende un senso di tristezza e si tende a tirare diritto; se vi è ressa, almeno un’occhiata la si dà, che è un aspetto non ancora abbastanza analizzato del già famoso effetto-FOMO, fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa che, nel solito nostro mondo interconnesso, è il fallimento massimo, l’ “ah, ma come mai non c’eri” che ci spinge ad accalcarci a certe feste doposfilata con la musica a palla per creativi trentenni che il giorno dopo saranno freschi come rose mentre noi combattiamo con il mal di testa da mancanza di sonno.
La fila aumenta la percezione di esclusività, soprattutto quando non c’è niente di esclusivo, dice l’esperta di marketing di famiglia, sapendo che, per aumentarne ancora l’attrattiva, bisogna anche ridurne l’orario di vendita e la disponibilità numerica. Lezioni di base di scarsità in un mondo che non sa come smaltire l’eccesso. Voglio comunque sperare che vi sia una differenza fra chi perde una mattinata per un pupazzetto di peluche e chi per ammirare “I giocatori di dadi”. E’ stata l’unica consolazione quando, rientrata in albergo, sono schiantata sul letto.