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Il nuovo tabù

Charlie Kirk era odiato perché il wokismo ha svilito il concetto di violenza

Michele Silenzi 

Non più solo fisica e coercitiva, ma "simbolica". Attraverso questa mistificazione non esiste praticamente nessun soggetto che non possa considerarsi come sottoposto a violenza, e da qui il punto d'appoggio per la propaganda woke 

La morte di Charlie Kirk è subito passata dalla cronaca alla storia. Succede di rado, con i fatti che ci scorrono dinanzi ogni giorno, moltiplicandosi e confondendosi l’uno con l’altro. In Charlie Kirk, invece, qualche cosa di specifico rimane. Non evapora, la sua morte, in mezzo a tutte le morti da cui quotidianamente siamo bombardati. Le immagini del suo assassinio, riviste da tutte le angolazioni, la pausa prima dello sparo, le dita che sfiorano il naso, l’ultima parola pronunciata, “violence”, e poi lo sparo che gli toglie il fiato, il sangue che sgorga, e la fine di tutte le parole. 


Ciò che rimane è l’archetipo dell’omicidio politico, che mantiene una sua unicità insuperabile attraverso i millenni. Ha a che fare con una violenza specifica che, evidentemente, ci tocca in un modo che rivela la realtà di un corpus “politico” non rappresentato da qualche istituzione in particolare, ma dall’esistenza effettiva di una comunità umana che vive secondo regole condivise, o si fa la guerra secondo regole da condividere con la forza. Una comunità in cui non la libertà di parlare, ma la necessità di parlare, di dire ciò che uno pensa, è la pietra angolare. Infatti nulla avvertiamo come più letale per questa comunità, cui tutti in qualche modo apparteniamo, che la sottrazione forzosa della parola. E nulla avvertiamo come più violento, come più lesivo di questa comunità che noi stessi siamo, dell’assassinio che sottrae la parola a un attore principale su questo palcoscenico. Una tale violenza è reale. E’ violenza politica nel suo significato più ancestrale e assoluto, ferita indelebile di quel corpus comunitario a cui tutti, in quanto inevitabilmente partecipanti dell’umana vicenda, apparteniamo. Negli ultimi decenni, invece, nel dibattito intellettuale, e poi nel dibattito pubblico, ha preso sempre più piede un concetto complesso poi semplificato e infinitamente moltiplicatosi e così affermatosi: quello di violenza simbolica. 


E’ un’idea formulata dal grande intellettuale francese Pierre Bourdieu. Come spesso capita alle idee incisive, quando popolarizzate rischiano di essere trascinate nella polvere della moltitudine, dell’utilizzo e della moltiplicazione, e in questo caso tutto diventa volgare e grossolano. Ma le idee davvero efficaci, come quella di violenza simbolica, non rischiano solo di essere trivializzate. Dopo essere state trivializzate, infatti, rischiano di fare danni straordinari (e talvolta è in realtà il motivo per cui quelle idee vengono concepite). 


La violenza simbolica si potrebbe dire che è un concetto oggi conosciuto da tutti, anche da chi non l’ha mai sentito nominare. In sintesi, vuol dire che la violenza non deve più essere pensata solo come violenza fisica e coercitiva (manganelli, armi, repressione, aggressione fisica eccetera) ma è molto più sottile. E’ una forma di dominio diffuso, capillare e inestirpabile che concerne l’habitus stesso del nostro vivere: il linguaggio, le istituzioni, le abitudini sociali. In questo schema, l’autorità dell’insegnante, il predominio maschile, l’imposizione di un modello culturale da parte di una classe sociale, eccetera, devono essere letti come atti di violenza. La costellazione della violenza si moltiplica così in azioni, attori e modi infiniti. E altrettanto infinite diventano le vittime potenziali di tale tipo di violenza. Attraverso il concetto di violenza simbolica non esiste praticamente nessun soggetto che non possa considerarsi come sottoposto a violenza. Al di là dell’ovvio, ossia che una tale teoria, indiscutibilmente potente, sia una dei principali punti d’appoggio del wokismo contemporaneo, ottiene anche un altro effetto. Quello, cioè, dello svilimento del concetto di violenza. 


Charlie Kirk, in teoria, era un perfetto prototipo del perpetratore della violenza simbolica. In realtà, era un formidabile retore che apriva spazi di confronto democratico, dinamico e quindi inevitabilmente fatto di scontri. Un sistema libero e democratico, del resto, non può che basarsi sulla libertà del dire in maniera spregiudicata, sulla spregiudicata circolazione delle idee. E’ questo un rischio, ma anche ciò che tiene aperta una società. E le cose aperte sono sempre più rischiose ed esposte di quelle chiuse.


Un’ultima osservazione arriva come consequenziale. Se davvero una frase può essere equiparata alla violenza fisica, allora diventa logico pensare che a quella “violenza” si possa rispondere con altra violenza, che può divenire, per l’appunto, fisica. Nel gesto dell’assassino di Kirk c’è la coerenza fanatica (la coerenza è quasi sempre fanatica, come la logica portata alle sue estreme conseguenze) di una congiuntura storica che si è ritrovata a ridurre tutto a linguaggio perché altre verità superiori su cui basarsi, o fondamenti solidi su cui poggiarsi, sono svaniti. In tal modo, il linguaggio diviene, sebbene in modo grottesco, “la casa dell’essere”: o meglio, la casa di esseri umani che credono nella sola verità di non voler essere feriti in alcun modo, a partire dalle parole. E’ questa chiusura del linguaggio e nel linguaggio l’unica promessa del progressismo contemporaneo?

 

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