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Il colloquio

Il dissenso non è un problema, ci dice Yuval Levin, è l'aria che tiene in vita le nostre società

Giulio Silvano

"Il punto deve essere capire come poter vivere tutti insieme, e agire insieme, a prescindere dalle discrepanze" dice il direttore della rivista conservatrice National Affairs e cofondatore del periodico The New Atlantis. "Se l’obiettivo è, anche implicitamente, far scomparire queste persone, allora il dissenso diventa guerra"

“Eliminare il dissenso da una società libera è come eliminare l’aria che respiriamo, e sarebbe una cura ben peggiore della malattia, dobbiamo discutere ancora di più”, dice l’analista politico israelo-americano Yuval Levin in seguito all’omicidio di Charlie Kirk. Direttore della rivista conservatrice National Affairs e cofondatore del periodico The New Atlantis, Levin spiega al Foglio che oggi, a volte, il dissenso è visto come negativo, e “lo diventa quando i cittadini in disaccordo vengono visti come un problema da risolvere e non più semplicemente come persone con cui negoziare e discutere. Dobbiamo partire dal presupposto che le persone con cui non siamo d’accordo sono parte del nostro futuro, tanto quanto del nostro presente. Quindi il punto deve essere capire come poter vivere tutti insieme, e agire insieme, a prescindere dalle discrepanze. Se l’obiettivo è, anche implicitamente, far scomparire queste persone, allora il dissenso diventa guerra”. 


Di guerra civile si è parlato sui social, da parte di una certa alt right, e Pam Bondi, che guida il dipartimento della Giustizia, ha parlato di “hate speech”, mentre Donald Trump al funerale di Kirk ha ribadito che lui “odia i suoi oppositori”. “Inutile dirlo”, spiega Levin, “ma questi sono abusi opportunistici del momento, e riflettono la bassezza delle persone coinvolte. Le loro parole e le loro azioni in questo momento sono molto dannose alla nostra cultura politica, così come lo sono state per anni”. Per Levin le persone sono troppo chiuse nei loro gruppi, e demonizzano l’altro, con cui appunto non dibattono e non discutono a sufficienza, dimenticandosi che la discussione è uno dei segni di una civiltà evoluta. Su Free Press, Levin ha citato una frase di James Monroe – giurista, padre fondatore e quarto presidente della nazione – che dice: “Finché la ragione dell’uomo continua a essere fallace, e ha la libertà di esercitarla, verranno a formarsi diverse opinioni”. Per abbassare la temperatura, continua Levin, dovremmo renderci conto che l’altro partito non è il problema. Per abbassare la temperatura, “anche se sembra controintuitivo, dobbiamo essere ancora più in disaccordo, ma in modo più diretto e concreto”.

Ma, spiega l’analista politico, le istituzioni civiche di oggi sembrano costruite per proteggerci dal vedere posizioni diverse dalle nostre – “non solo i social, ma anche la stampa polarizzata, e le università e chiese ‘monopartitiche’”, e pure il Congresso ormai, dove non c’è mai spazio per il confronto con chi la pensa in modo diverso. Siamo divisi in subculture che ci separano sempre di più: secondo i numeri del National Bureau of Economic Research, la polarizzazione politica negli Stati Uniti sta aumentando più rapidamente che nelle altre democrazie e questa tendenza porta a una diminuzione dell’efficacia della macchina governativa e statale.  E  porta all’odio di cui si parla oggi. Il presidente Trump, e molti del mondo Maga, continuano a dare la colpa di questo clima alla “sinistra radicale”, dove rientrano un po’ tutti. Secondo Levin “ci sono voci radicali sia a destra sia a sinistra che hanno dato, a persone psicologicamente vulnerabili di entrambe le parti, un implicito incoraggiamento alla violenza. Molti di loro non sembrano voler incoraggiare alla violenza, ma è difficile negare che parte della loro retorica non lo abbia fatto. Ma la violenza politica negli Stati Uniti rimane molto rara, abbastanza rara da sconvolgerci, ed è quello che dovrebbe succedere”. 


A lungo un certo attivismo da campus ha equiparato la violenza fisica alle parole, come se un insulto fosse equivalente a un pugno. “Negli Stati Uniti minacce e incitamento alla violenza sono sempre stati percepiti come fuori dai confini del free speech”, dice Levin, “e questo ha senso. Ma allo stesso tempo non credo che le parole siano violenza, e dovremmo tendere a permettere più spazio possibile per la retorica e l’espressione della parola”. Se la morte di Kirk ha portato molti a chiedere punizioni e ripercussioni, ha anche portato molti a chiedere una pacificazione nel dibattito politico, per evitare un’escalation. Ci dice Levin: “Non dovremmo essere naïve su ciò che potrebbe succedere sulla scia di questa tragedia, ma dovremmo fare il nostro meglio per parlare ai tanti americani che hanno vissuto uno choc dopo l’omicidio, e cercare di trasmettere un messaggio di riconciliazione. Non trasformerà la cultura, ma potrebbe aiutare”. 

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