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Nascite, dalla crisi al collasso
I tassi di fertilità scendono a picco, lo dice anche l’Onu. E non bastano le politiche di sostegno alla natalità per invertire la rotta
Anche il più estremo e impensabile dei vocaboli del quale mai avremmo pensato di servirci per raccontare la grande crisi demografica dei nostri tempi è stato sdoganato. E a farlo è stata nientemeno che la Population Division dell’Onu, di norma refrattaria ad azzardare giudizi, che in un comunicato dell’11 luglio 2025, in occasione del World Population Day 2025, si esprime inaspettatamente con questa nettezza: “Global fertility rates are falling, prompting warnings about ‘population collapse’”: i tassi di fertilità che stanno precipitando suonano come avvertimenti del collasso della popolazione. “Population collapse”: Il collasso della popolazione mondiale è ormai uno scenario nient’affatto distopico o avveniristico e comunque del tutto improbabile. E’ piuttosto una realtà che ci sfiora da vicino, più di quanto avessimo mai sospettato; una realtà che se non proprio i nostri incrocerà senz’altro i destini dei nostri nipoti – se non prima ancora quelli dei nostri figli. I passi con cui questa realtà si avvicina ai nostri giorni sono infatti decisamente più rapidi, più veloci di quelli che, pure, erano stati autorevolmente preventivati.
Ancora venti anni fa lo stato, gli indicatori e le tendenze della popolazione mondiale lasciavano presagire che essa avrebbe superato largamente gli 11 miliardi e avrebbe raggiunto i 2 figli in media per donna, soglia di sostituzione che assicura una popolazione mondiale stazionaria, solo alla fine del secolo, quando dapprima si sarebbe assestata e poi sarebbe cominciata a diminuire. Oggi i nuovi calcoli ci dicono che la punta massima del popolamento non sembra destinata a toccare i 10 miliardi e che i 2 figli in media per donna verranno raggiunti con almeno 30, più probabilmente ancora con 40, anni di anticipo sul 2100. Si tratta ancora di previsioni, è vero, non è detto che si avvereranno in pieno ma conviene riflettere bene sul fatto che previsioni di questo tipo, demografiche e globali, non hanno fatto che peggiorare e che il peggioramento è stato particolarmente significativo tra la previsione del 2011 e quella del 2024, entrambe ad opera della Population Division.
Per la verità, per quanto ci torni assai comoda la cifra di 2 figli in media per donna come soglia di sostituzione – in quanto i due figli, oltre a essere cifra tonda, sostituiscono numericamente i due genitori, ne prenderanno il posto, al netto di tutte le complicazioni nella generazione d’oggigiorno –, per aversi il pareggio tra nati e morti e di conseguenza una popolazione mondiale stazionaria occorrono circa 2,1 figli, leggermente più di due, per tener conto dei figli che non arriveranno all’età della capacità riproduttiva, che moriranno prima di raggiungerla senza poter contribuire alle nascite e al loro pareggio col numero dei morti. Bene, oggi la fecondità media per donna nel mondo è di 2,2 figli, a un passo dunque da 2,1, ed è destinata a scendere sotto questo livello già prima del 2050, quasi certamente tra meno di venti anni. Una volta che avremo raggiunto quella soglia la popolazione non diventerà certo stazionaria da un giorno all’altro, continuerà ancora a crescere verrebbe da dire per la forza d’inerzia che le hanno impresso i continui aumenti di abitanti dei decenni d’oro dell’aumento della popolazione mondiale 1950-2000, che hanno in certo senso immesso nell’arena riproduttiva coorti numerosissime di donne in età fertile che se pure fanno pochi figli singolarmente ne fanno molti, giacché molto numerose, nel complesso. Ma anche così, anche continuando l’aumento della popolazione mondiale per ancora un paio di decenni dopo che saremo scesi sotto i 2,1 figli in media per donna, non sarà più la stessa cosa alla quale ci siamo abituati dalla metà del secolo scorso ed entreremo in una fase di recessione sempre più spinta del popolamento mondiale, avvicinandoci se non proprio precipitando nel collasso della popolazione.
La fase che stiamo attraversando adesso è denominata dagli esperti “Fertility transition”, la fase della transizione della fertilità dai valori alti dei decenni precedenti ai valori bassi di oggi e a quelli ancora più bassi che ci aspettano. Nel 1970 il numero medio di figli per donna nel mondo era ancora di 4,8, vicinissimo ai 5 figli in media per donna, un’enormità, visti con gli occhi di oggi; poco più di cinquant’anni dopo, si è detto, si superano di non molto i 2 figli in media per donna: una transizione lunga e decisa che non si è ancora conclusa e che porterà il numero medio di figli per donna a 1,8, forse ancora meno, ben al di sotto della soglia di sostituzione sia essa di 2,1 che di 2 figli, entro la fine del secolo, quando la popolazione mondiale avrà da tempo cominciato a perdere abitanti e potrebbe arrivare a perderne la metà in meno di cinquant’anni. Ma questi ultimi sono scenari spinti troppo in là nel tempo, quando troppe cose, eventi e situazioni, potrebbero frapporsi e riuscire a cambiare tendenze che al momento attuale appaiono nette, decise, difficili non si dica da ribaltare ma anche soltanto da modificare in modo apprezzabile.
D’altro canto il collasso della popolazione a livello mondiale a cui la Population Division accenna, verrebbe quasi da pensare per esorcizzarlo, è una realtà ben più incombente a livello regionale, a livello di certe regioni e pure di interi continenti. Già nel 2024 in 131 dei 237 paesi del mondo il tasso di fecondità era sceso sotto il livello dei 2,1 figli in media per donna – livello scelto dalla Population Division come soglia toccata la quale la transizione della fertilità viene considerata completata. E se questi paesi rappresentano il 55 per cento dei paesi del mondo, la loro popolazione complessiva, di circa 5,6 miliardi, rappresenta ben il 68 per cento della popolazione del mondo, cosicché già oggi quasi 7 abitanti del mondo su 10 vivono in realtà statuali dove non si raggiunge la soglia (reale) di sostituzione della popolazione. Più puntualmente i paesi del mondo possono essere suddivisi in tre grandi gruppi, in base alla fase in cui oggi si trovano rispetto alla “Fertility transition”.
Il primo gruppo, composto da 72 paesi con una lunga storia di bassa fertilità e una popolazione complessiva di 2,9 miliardi (il 35 per cento della popolazione mondiale), in cui la transizione era stata completata già prima del 1994, almeno trenta anni fa, comprende paesi come la Cina, gli Stati Uniti, la Russia, il Giappone, la Germania – e più in generale l’intera Europa, l’America del Nord, l’Oceania, l’Asia dell’est – vale a dire tutti i paesi e le regioni del mondo con i più bassi tassi di fertilità, quasi sempre lontanissimi dalla soglia di sostituzione, capaci di scendere perfino sotto un figlio in media per donna come nella Corea del Sud, a Singapore e Hong Kong. E se in regioni e paesi dell’Europa come l’Italia, coi suoi 1,2 figli in media per donna, stentiamo anche soltanto ad avvertire gli spifferi freddi del collasso della popolazione è soltanto perché, a dispetto di quello che dicono i Salvini e Vannacci di turno, ci ha pensato l’immigrazione, piaccia o non piaccia, a tenerci al calduccio. Senza l’immigrazione avremmo in Italia otto milioni di abitanti in meno, saremmo cioè a 50 milioni, tanti quanti alla fine degli anni Cinquanta quando l’Italia era ancora alle prese con la ricostruzione, e con una struttura della popolazione ancora, e drammaticamente, più vecchia.
Il secondo gruppo, composto da 102 paesi per una popolazione complessiva di 3,5 miliardi (il 43 per cento della popolazione mondiale), tra cui l’India, il Brasile, il Messico, le Filippine, il Bangladesh, l’Indonesia – e più in generale l’America Centrale, Latina e Caraibica, l’Asia del sud e del sud-est – nella maggioranza dei quali la transizione è stata completata tra il 1994 e il 2024 mentre nei restanti lo sarà al più entro i prossimi trent’anni. E infine un terzo gruppo, composto da 63 Paesi per una popolazione complessiva di 1,8 miliardi (il 22 per cento della popolazione mondiale), comprendente paesi come la Repubblica del Congo, l’Egitto, l’Etiopia, la Nigeria, il Pakistan, l’Afghanistan – e più in generale l’Africa quasi al gran completo e ampie regioni dell’Asia Centrale – in cui il completamento della transizione, cominciata di recente o da più anni ma con scarsi risultati, appare molto lontano, decenni dopo la metà del secolo. Al collasso della popolazione mondiale si oppongono, viene da dire, solo i paesi di questo terzo gruppo, che sono anche quelli coi più bassi indici di sviluppo socio-economico, mentre vi contribuiscono in modo del tutto prevalente i paesi del primo gruppo, che sono anche quelli coi più alti indici di sviluppo socio-economico, che appaiono come i grandi responsabili degli inquietanti scenari che si aprono davanti alla popolazione mondiale, all’umanità.
Ora, il dubbio che sorge spontaneo, fatta questa ricognizione, è se davvero si possa anche solo accennare alla possibilità del collasso della popolazione mondiale di fronte a uno scenario attuale di questa popolazione così profondamente diversificato, estremizzato, con un terzo abbondante della popolazione mondiale alle prese con una crisi di natalità e fecondità che viene da molto lontano e dalla quale non sembra possibile tirarsi fuori, solo sprofondare, e più di un quinto della popolazione mondiale alle prese col problema opposto di livelli di natalità e fecondità tuttora altissimi di 4-5 figli in media per donna la cui flessione si farà ancora attendere per decenni. Ha senso in un mondo in cui gli estremi della fecondità vanno da meno di un figlio a più di cinque figli in media per donna parlare di una prospettiva, quale che sia, comune, complessiva, della popolazione mondiale? La sola cosa che si possa dire al riguardo è che mai come oggi ha un senso parlare di prospettiva della popolazione mondiale. Il perché è presto detto: viviamo in un mondo profondamente interconnesso; agiamo in una popolazione mondiale che mai è stata in movimento più di oggi (leggi movimenti migratori). Così il nostro è un tempo di continui rimescolamenti di carte, e lo vediamo del resto anche nella temperie dei conflitti, delle guerre, dei mutamenti geopolitici del mondo, che imprime al popolamento mondiale una linea tendenzialmente univoca ch’è appunto quella della compressione della fecondità, ovvero della fertility transition: tutto il mondo, tutta la popolazione del mondo va in questa direzione.
No, a non convincere nelle analisi della Population Division è altro. E’ la sentenziosa e a suo modo caciarona facilità con cui la prestigiosa Divisione dell’Onu riassume i grandi fattori scatenanti di una crisi demografica senza precedenti che potrebbe sfociare nel collasso della popolazione globale in quella che a maggior ragione sembra oggi la madre di tutte le ovvietà/banalità, vale a dire: “Many people, especially youth, are unable to have the children they want”. Ma come, sei davanti a uno scenario globale in cui, a livelli diversissimi, i paesi e le popolazioni del mondo, di tutto il mondo, sono alle prese con la caduta dei tassi di fecondità, numero medio di figli per donna, e questa è la tua conclusione di massimo istituto mondiale della popolazione? Una roba da bar dello sport dove in effetti è tutto un rassicurarsi l’un con l’altro che se non si fanno figli è perché non ci sono le condizioni per farli? Perché specialmente i giovani sono impossibiliti a farli dal momento che non hanno lavoro, non hanno casa, non hanno soldi, mentre li vorrebbero fare eccome?
Per radere al suolo ovvietà/banalità di questo livello bastano i dati dei 27 paesi dell’Unione Europea: il numero medio di figli per donna è diminuito significativamente in tutti i paesi dell’Unione Europea indipendentemente dalle politiche di sostegno alle famiglie e alla natalità messe in atto. Ma ciò non basta, perché le perdite maggiori della fecondità si riscontrano nei paesi in cui le politiche di sostegno alla natalità sono in vigore da più tempo e sono le più avanzate possibili, le più sbilanciate nel favorire in ogni modo le nascite da coppie giovani, unite in matrimonio o di fatto che siano. Questo non succede perché quelle politiche sono controproducenti, ma perché hanno dato quel che potevano dare e ora non funzionano più, sulle nuove generazioni nel pieno della fertilità e della vita adulta hanno una presa minima, quando pure ne hanno una. Pensare di ridurre la grande crisi della fecondità all’insufficienza di fattori e condizioni materiali predisponenti ai figli è la grande, persistente illusione che ci ha trascinati sull’orlo del collasso della popolazione. Si potrebbe obiettare che però in gran parte del mondo queste politiche non solo sono sconosciute, ma sono di là da venire. Vero, ma in quelle parti del mondo dove questo succede il problema non è fare più figli, quanto semmai ridurli perché se ne fanno troppi. In quelle parti del mondo le popolazioni non vogliono più figli, ne vogliono meno, e le politiche di sostegno vanno in questa direzione non in quella contraria. Ma allora il collasso della popolazione è nei numeri, nelle tendenze, nell’ordine delle cose? Insomma, è una prospettiva alla quale non si può sfuggire? Sì, è così. E’ fuori discussione che questo è il futuro, nient’affatto lontano, che aspetta l’umanità. Tutto quello che si può fare è evitare che il collasso sia un collasso in piena regola e assomigli piuttosto a un ridimensionamento della popolazione, sia pure in grande stile.



L'editoriale del direttore