Il Foglio Weekend
Perchè si scrive? Da Proust alle recensioni sulla friggitrice ad aria
Due libri a confronto per capire come siamo finiti in un mondo in cui "scrivono tutti"
“Stai scrivendo?”, buttata lì, come domanda, a una cena, o bevendo un bicchiere, allo scrittore o scrivente professionista, diciamo chi si guadagna da vivere con la scrittura, è davvero la frase più infelice della lingua italiana. Un po’ perché se ha già pubblicato o sta per pubblicare o non pubblicherà è comunque angosciato, angosciatissimo. Un po’ soprattutto perché attorno a lui stanno tutti scrivendo.
Infatti oggi pubblica davvero chiunque: cantanti, medici, vigili urbani, ministri, vicepresidenti, presidenti ed ex presidenti del Consiglio, e vescovi, cardinali, e naturalmente il Papa (sul sito Mondadori Francesco è definito “il Papa Scrittore”, sull’onda del successo dei suoi molteplici scritti). E spesso non scrivono memorie, che anzi sarebbero interessanti, no: scrivono romanzi. Cioè una storia immaginaria con un inizio e una fine e possibilmente una metafora e un messaggio, perché senza er messaggio non si va da nessuna parte (tranne il Papa, almeno lui, niente romanzi, che si sappia).
Scrive Rampini, insieme al figlio di Rampini, Jacopo, attore (appena uscito il romanzo a quattro mani “Il gioco del potere”, per Mondadori, che non racconta le trame di casa bensì una distopica saga familiare tra i padroni della Navitech, una immaginaria azienda italiana di microchip sottoposta a una scalata estera, e la famiglia dei proprietari alle prese con una difficile successione). “Un thriller dal ritmo serrato, in cui l’innovazione tecnologica può determinare le sorti del pianeta, ma anche la storia di un padre e di un figlio, divisi da incomprensioni e silenzi, che nel caos degli eventi troveranno un modo per riavvicinarsi”, dice la bandella. Meglio del celebre romanzo del papà di Carlo Calenda, “I soldi sono tutto”, uscito anni fa, in cui c’era un protagonista che soffriva anche “il confronto con il primogenito, adorato dalla madre e precocemente affermato all’estero come investment banker, la cui sola esistenza sembra rinfacciargli la sua mediocrità”. E ancora: scrive romanzi l’influencer milanese Tommaso Zorzi, ultima una storia sulla marchesa Casati: scrive insomma chiunque abbia un minimo successo in qualsivoglia campo, perché è un attimo che arriva l’editor-agente, una specie di Vautrin balzachiano che ti titilla… vuoi mica fare un romanzo? E chi mai rifiuterebbe? Scrivere un romanzo, compiuti i 50 o anche al di sotto, è d’obbligo, è come la colonscopia. Scrivere romanzi è un’esigenza ineluttabile, come racconta Alessandro Piperno nel suo ultimo libro, “Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio di scrivere” (Mondadori), che narra delle smanie di chi continua a cimentarsi con questo genere tormentato e dato per morto un’infinità di volte. Piperno parla di “brivido dei polpastrelli”, e del resto chi meglio di lui, romanziere di qualità e successo, per elencare ii motivi per cui si scrive: “ambizione, odio, responsabilità, piacere, conoscenza”, e di lì perdersi in questi scompartimenti di un viaggio succulento da Proust a Kafka all’amato Flaubert a Philip Roth (adesso pronto a una nuova giovinezza nella nuova confezione Adelphi) a Fitzgerald a Virginia Woolf, e fa venire una voglia pazzesca di mettersi subito alla tastiera. Del resto lui stesso, Piperno, lo si può trovare al mattino in un bar vicino a casa mia, all’aperto, anche con temperature proibitive, immerso nel suo computer, con la pipa, e i suoi tweed: sembra uno spot Pubblicità Progresso per gli scrittori, lui ci crede ancora, è chiaramente il miglior testimonial che ci possa essere della professione e della categoria.
C’è invece chi pensa che i romanzi e i libri in genere non servano più a niente o servano a tutt’altro da quello a cui eravamo abituati. È il caso di Arnaldo Greco e del suo “E anche scrittore. Come ci siamo messi tutti a scrivere” (Utet). Il titolo rimanda ai micidiali “sottopancia” delle trasmissioni tv, dove tutti sono infatti “e scrittore”: il più tragico, fantozziano, è “giornalista e scrittore”, come dire, non ti bastava essere fregato una volta, no, due. Ma ci sono anche gli chic “diplomatico e scrittore”, il “cuoco e scrittore” (in crescita), e il raro “imprenditore e scrittore” come vuol essere definito per esempio Oscar Farinetti di Eataly.
Tutti scrivono, spiega Greco, perché scrivere un libro è diventato non più un fine ma un mezzo, per andare in tv, per andare ai festival, per uscire dal cono d’ombra, per dimostrare d’essere (ancora) in vita. Ecco alcune fattispecie di scriventi: “il politico che ha bisogno di sfornare un libro ogni uno o due anni, perché gli permette di andare come ospite in pratica mente ogni trasmissione televisiva in cui si parli di politica (quindi, grosso modo, tutte tranne i quiz)”. La “nota influencer che grazie a una loquela efficace è riuscita a conquistare migliaia di follower. Un libro le permetterà di fare il salto di qualità e lei lo sa bene. Varie case editrici le propongono di scriverne uno, ma nessuno sa bene quale possa essere il tema. Fiction e non fiction, dal romanzo epistolare alla sociolinguistica”. Poi c’è Tizio che “erano due anni che non usciva qualcosa di suo in libreria e serviva ‘fare il tagliando’. Caio è felice “perché grazie all’uscita lo inviteranno ai festival”. Sempronio è “un comico che prende un buon cachet per ogni apparizione televisiva. Nonostante i libri comici abbiano smesso di vendere ormai vent’anni fa, è felicissimo di pubblicare il suo libro perché vuole accreditarsi anche come scrittore. Il libro, naturalmente, andrà male e per i due mesi di presentazioni sarà costretto a partecipare a programmi televisivi dovendo pure rinunciare al solito cachet perché ‘è in promozione’”.
La disamina di Greco è inquietantemente precisa, soprattutto perché egli è autore televisivo di lungo corso, tra l’altro dell’unico programma rimasto in cui la promozione libraria funzioni ancora, “Che tempo che fa”, e che dunque è visto come il sacro Graal da tutti gli scriventi, professionali e della domenica (avranno magazzini speciali per la mole di volumi che gli arriveranno dalle case editrici).
Ma oltre che per andare a “CTCF”, perché si scrive? Certo per “ambizione, odio, responsabilità, piacere, conoscenza”, come dice Piperno, che peraltro fa una distinzione tra lo scrivere e il pubblicare. Un tempo gli scrittori veri stavano attenti infatti a non inflazionarsi, alla ricerca anche della perfezione dello stile. Kafka e Proust, che Piperno pone a un livello “di diverse spanne superiore a chiunque altro”, erano non certo alieni dalla nozione di successo, ma semplicemente non mossi dal desiderio di pubblicare a qualunque costo. La pubblicazione “non è il fine ultimo di chi scrive, ma tutt’al più un effetto collaterale”. Fino al paradosso di Kafka che godeva quando il suo editore gli mandava indietro i manoscritti con un gentile rifiuto. Un po’ troppo.
Ma in generale però la pubblicazione arriva, e si pone il problema a quel punto di come smaltire l’enorme produzione libraria. Perché se scrivere e pubblicare è ormai diventato un sinonimo (chi oggi pensasse di attendere, ricercando una propria maturazione stilistica, verrebbe rinchiuso con Tso) poi questa mole micidiale di manufatti va collocata. Ci si prova con gli influencer, tipo Edoardo Prati, misto tra Raffaello Tonon, giovane col vocione baritonale, e young Leopardi da fiction Rai, in tv sempre a CTCF e sui giornali.
E poi coi book club: oggi tutti hanno un book club, le star televisive hanno un book club, gli stilisti hanno un book club, gli hotel hanno un book club. Anche i club – tipo la Soho House - hanno un book club. Ma se Piperno ricorda l’antica massima cara a Truman Capote ("Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente per l'autoflagellazione") per cui scrivere narrativa è anche e soprattutto un atto di autolesionismo, il book club è l’ultima variante del Bdsm autoriale. Pensavate che per uno scrittore non ci fosse niente di peggio delle presentazioni dei libri, anche coi micidiali viaggi su e giù per la penisola, e tre copie vendute e l’imbarazzo del “ci sono domande” a cui segue la scena muta? Non avete mai provato allora il book club. Dove si comprano ancora meno libri che nelle presentazioni, perché i soci del book club ne comprano 1 e se lo passano, oppure lo prendono direttamente in biblioteca. Chiariamoci, io non ce l’ho coi book club, ho tanti amici book club. Nati con le migliori intenzioni, per riunire persone attorno a un libro, per lo scrivente professionale si sono trasformati però in un ulteriore rito sacrificale. Ultimamente mi invitano spesso: ti va di venire a, mettiamo, Vimercate, a partecipare al nostro book club? “Abbiamo letto il tuo libro e vorremmo discuterlo con te. Naturalmente gratis, non paghiamo neanche il viaggio, neanche in terza classe, però poi puoi venire a cena con noi”. E tu timidamente fai notare: scusate ma io sto a Roma, come ci arrivo a Vimercate? Ma subito ecco il senso di colpa mai sopito, ma come, allora sei un vile capitalista, se non vuoi partecipare al book club! Non vuoi andare a cena a Vimercate!
Allora in corner la butti lì: facciamolo online. Benissimo. A quel punto aspetti la serata stabilita (il book club si tiene sempre col favore delle tenebre), quando mentre il microfono fischia e la connessione salta, una tetra stanza che sembra di tribunale si illumina, ma tu non hai capito che sotto processo sei tu. Dopo le prime timidezze, le signore del book club ti diranno: “guardi, onestamente ci ho provato ma non mi sento di darle la sufficienza”. Ma come, ti danno pure i voti? Non l’avevate detto. E poi mi avete cercato voi! Hai lavorato tutto il giorno, hai mangiato in fretta per collegarti con Vimercate e ora ti fanno il processo popolare. Un altro più clemente dice “non mi son sentito coinvolto dalla storia, ho messo comunque sei sulla fiducia”. Tu sei lì, gratis, e spunti la sufficienza. Poi adducono anche delle motivazioni intelligenti (“questo personaggio non funziona per questo e quest’altro motivo”, ecc.). che ti distruggono ulteriormente. Alla fine, accortasi del tuo scoramento un’altra socia ti dice: “guardi, il romanzo non ci è piaciuto, ma abbiamo comunque molto apprezzato lei come essere umano”. Cioè hanno apprezzato come ti sei comportato nel martirio. Forse dopo il martirio compreranno altri miei libri. Ma il tema è: vorrò io farne, o invece accarezzerò l’antica idea di darmi ai grani antichi?
Proust e Balzac e Fitzgerald, a cui Piperno dedica i capitoli più gustosi del suo libro, con le loro smanie di successo (arrivato subito ma avvelenato per Fitzgerald, tardi ma avvelenatissimo per Balzac) hanno subito di tutto, ma almeno non i book club. E non l’assedio dell’esercito degli scriventi coatti che oggi ci circonda, e di cui facciamo parte naturalmente anche noi. E qui non parliamo di chi comunque vuole pubblicare e non riesce (perché c’è anche questa nicchia veramente incredibile in questo “mercato”. E’ un fenomeno macroeconomico inspiegabile, peggio dei dazi di Trump; neanche Krugman, neanche Stiglitz, neanche un redivivo Keynes riuscirebbe a comprenderlo).
E non parliamo neanche della frustrazione che coglie gli scriventi professionisti nel vedersi circondati da sempre nuovi colleghi amatoriali. Perché diciamolo, anche a noi verrebbe la voglia un giorno di dire: oggi invece di scrivere faccio il pilota d’aereo, o il pasticcere, o il direttore d’orchestra (senza dimenticare i grani antichi). Ma giustamente la società ce lo impedisce. Se allo scrivente viene quel leggero languorino di svegliarsi cardiochirurgo e operare una bella appendicite né un ospedale pubblico né una clinica convenzionata te lo consente. Così come se ti pungesse vaghezza di giocare in una squadra di calcio in serie A o B o anche C, ti riderebbero giustamente dietro. Invece chi scrive di mestiere, bene o male, si ritrova come un chirurgo o terzino che non sa mai chi gli capita in squadra, oggi al posto del primario è arrivato un ex gelataio di successo; e un’astrologa famosa si occuperà dell’anestesia, mentre in difesa ci sarà lo chef stellato. Non c’è il dottore? No, c’è lo scrittore, peggio del dottorino (cit.).
No, qui parliamo di un fenomeno ancora più colossale, dello scrittore diffuso (di stronzate) che siamo diventati tutti: centomila caratteri al giorno, leggiamo o scriviamo, stima Greco, ma non è la “Recherche”. Alla ricerca della stronzata perduta, produciamo (e leggiamo) migliaia di parole che non sgorgano dalla penna di Proust, bensì dai Fragola77 o BotRusso21 che siamo diventati, dai commenti online su tutto, dai post online su tutto, dalle mille battute (o caratteri) di ognuno che si autocelebra per il compleanno. Vent’anni fa, a chi sarebbe venuto in mente di apporre un cartello su casa sua scrivendo come compiere gli anni sia meraviglioso, o cosa la vita gli abbia riservato finora, in tono “alto” cioè poetastrico. Per poi vedere centinaia di amici apporre identici cartelli anche lì con frasi da libro Cuore. Oggi è così, ognuno di noi ritiene fondamentale esprimere in forma scritta riflessioni di ogni genere, concioni di ogni tipo, in una poesia continua d’occasione, vernacola e spontanea, oppure solenne come un’ode civile (è Natale e posto i miei pensieri; ho avuto un figlio e posto i miei pensieri, non ho figli e posto i miei pensieri); per non parlare delle chat WhatsApp che ti inseguono pure la notte (contro l’incontinenza scritta Greco si spinge fino all’apologia dei messaggi vocali: un terreno su cui non ci sentiamo di seguirlo). In questo mondo tutto scritto, anche lo scrivente di professione passa ormai più tempo ad autopromuoversi che a fare il suo libro; deve dire la sua su qualunque argomento, per “posizionarsi”, per ricordare di esistere, per ricordare gli appuntamenti in cui tenterà di vendere il suo manufatto. Per raccattare like, lo dice anzi scrive anche Piperno (Virginia Woolf era avida di lodi e molto insicura nonostante il successo, racconta, e sarebbe impazzita coi like). In questo continuo sbrodolamento, chi mai vorrà attendere quindi l’opera dello scrittore per sapere come la pensa sul mondo, l’arte e la vita, dopo che legge i suoi centomila post annui su tutto? “Sulle elezioni politiche in Slovacchia, sugli altri libri, sui sacchetti biodegradabili?”.
Un mondo a parte, e meraviglioso, almeno per noi, è poi quello delle recensioni. È risaputo che ormai si scrivono recensioni di qualunque cosa, dalla friggitrice ad aria agli alberghi proprio ai libri. È come se anche la vitalità del carattere italiano, che nei romanzi così poco viene fuori, si riversasse invece liberamente nelle pagelle su Amazon e TripAdvisor. Alcune recensioni sono sublimi perché confondono l’oggetto col contenuto, dunque, friggitrice is the message. Così, “Guerra e pace” meriterà due stelle su cinque perché l’esemplare è arrivato danneggiato. Fece scalpore qualche tempo fa una story accorata di Francesco Costa che fu costretto a spiegare come i suoi libri, pubblicati nella collana Strade blu di Mondadori (che ha tra le caratteristiche di avere il taglio delle pagine non uniforme, volutamente) non fossero difettosi. Si vide infatti subissato da recensioni negative per quello che veniva considerato un errore di produzione, e che dunque comportava un voto negativo, come se fosse appunto una friggitrice. Ma oggi Costa, che incarna in sé un po’ l’autobiografia del trapasso dal vecchio al nuovo mondo, quello post-libri e post-giornali (oltre che essere direttore del Post) ha dovuto fare un’altra story nei giorni scorsi perché le librerie Feltrinelli nella loro newsletter hanno annunciato urbi et orbi che “è uscito il nuovo romanzo di Francesco Costa”: si intitola “Morte ai poveri”, solo che è di un omonimo (non era precisato). Dunque tutti i fan del Costa più celebre erano contentissimi ed eccitati, mentre lui ha smentito, molto recisamente: “mai ho fatto un romanzo e mai lo farò”. Stiamo attenti però con le promesse.E intanto andiamo a leggerci “Morte ai poveri”. E poi soprattutto commentiamo, commentiamo, commentiamo.