
(foto Ansa)
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Lode all'ultimo ponte (ma sarà davvero l'ultimo?)
I trolley che rimbombano nel vuoto. E l’immortale definizione: pasquettari di merda. Almeno è finito tutto e ad agosto si potrà sempre dire: non posso
Oggi è un giorno molto importante: forse sta per finire il ponte più lungo della mia vita. Ma penso anche delle vite degli altri. Il ponte che è iniziato il mercoledì della settimana di Pasqua e di cui ci libereremo il 5 maggio, a giudicare dalle risposte automatiche alle mail di dieci giorni fa: sarò nuovamente disponibile al mio rientro da lunedì 5 maggio. Alcuni aggiungono: del resto, come tutti. Anche i giornali hanno annunciato, per ieri venerdì 2 maggio: non saremo in edicola, del resto come tutti. Con una punta di vergogna, con una punta di trionfo.
In queste tre settimane ho sperimentato nel mio cervello, nelle città e negli uffici, il profondo significato della parola ponte: in sintesi, gente che scompare e imposta la risposta automatica, oppure che riappare per un’ora, preceduta e seguita da trolley, e controlla il meteo. Gente che sta partendo, o che è appena tornata e però deve subito ripartire. Gente abbronzata, rientrata dalla Liguria o dal Marocco, che verifica gli altri fusi orari e mi chiede: che cosa fai per il ponte? E io non so più a che cosa si riferisca, il ponte di Pasqua, del Venticinque aprile, del Primo maggio o quello della vita eterna in cui ognuno di noi verrà giudicato in base alla grandezza del suo trolley e ai giorni di vacanza? Perché comunque si possono costruire ponti ovunque. Ponte è una convenzione linguistica, riguarda l’attraversamento di qualcosa, il collegamento verso qualcosa, ma se tu decidi che il mercoledì è molto vicino al sabato, o il giovedì è già praticamente un lunedì, ecco che abbiamo costruito un ponte e che possiamo entrare in una nuova dimensione spazio-temporale, simile a quella di Interstellar: fra centoventiquattro anni noi ci ricongiungeremo in modi paralleli con le persone (poche) rimaste sulla terra e non partite per i ponti, e dal nostro buco nero forniremo le equazioni sulla gravità e sui ponti futuri ai colleghi che nel frattempo avranno novantanove anni e staranno ancora aspettando che gli rispondiamo a quella mail di lavoro.
Tutti quelli (pochi) che non sono partiti dicono: ma che giorno è oggi? Mi sembra sabato, e si aggirano per uffici vuoti, pensano di essersi ubriacati la sera prima perché non hanno più la cognizione del tempo, chiamano i colleghi per vedersi un attimo prima della riunione, ma arriva in risposta solo l’eco della propria voce. Ogni tanto passa qualcuno, trascinandosi questo trolley rumoroso che rimbomba nel vuoto delle strade e delle stanze, compare per un attimo, il tempo necessario per accorgerci che si è beccato un’insolazione, e dopo un’ora e venti scappa via perché deve partire per altri cinque giorni. Ciao ci vediamo il 5! Se è proprio urgente mi trovi sul cellulare, ma non so se prende e comunque ci sono sette ore di fuso orario, scrivimi una mail. Tu a un certo punto ti vergogni di disturbare ma hai bisogno di un riscontro, allora scrivi una mail, e ti arriva immediata la risposta automatica, in quella risposta automatica sembra di sentire lo sciabordio delle onde o la frattura di una gamba durante una discesa con gli sci, ma forse è un’allucinazione.
Poi torni a casa e trovi altre persone agguerrite con i trolley pronti davanti alla porta che dicono: non penserai mica di andare a lavorare domani? E’ ponte! E tutti in coro gli amici gridano: cosa fai per il ponte, cosa facciamo per il ponte, noi siamo già partiti perché è ponte, che vino porti per il ponte? che film andiamo a vedere per il ponte, che capitale visitiamo per il ponte, che mostra vediamo per il ponte, che libri metti in valigia per il ponte? E se tu dici: ma quale ponte, non ho capito bene, io veramente avrei una cosa da fare (non si può dire: lavoro, è reato), ti guardano come un disadattato sociale, anzi come una guastafeste. Una mia amica mi ha detto: non hai giustificazioni, non sei certo la cuoca di un ristorante.
Perché mentre tutto il mondo fa ponte e si sdraia nei campi di papaveri e si scotta la faccia o si prende la polmonite o manda le foto del primo bagno al mare, ci sono persone che lavorano il quadruplo per permetterci di dire che abbiamo fatto ponte e abbiamo speso un sacco di soldi però la porchetta era gloriosa, le pappardelle incredibili e che ogni tanto (in aprile praticamente ogni giorno) è giusto staccare la spina e contemporaneamente ricaricare le batterie, e che rimandiamo il rientro a domani perché oggi c’è troppo traffico. Basta partire all’alba e arrivare direttamente in ufficio, con la sabbia nelle scarpe, con il gesso al braccio, con l’herpes sulle labbra da primo sole sul ghiacciaio, con la macchina distrutta dal tamponamento in autostrada. Con i racconti delle disavventure e delle valigie perse in aeroporto, ma con le foto su Instagram per fingere di essere stati felici.
Ieri anche io ho mangiato con vera gioia le tagliatelle e bevuto il vino frizzante (dieci chilometri in un’ora e mezza di auto) e al tavolo accanto al mio c’era una donna molto triste che diceva al commensale (forse il marito, forse un amante, spero per lei nessuno dei due): non ce la faccio più, non vedo l’ora che sia lunedì. Il commensale aveva un trolley sotto il tavolo e la guardava senza capire.
Una volta, molti anni fa, una persona molto importante e molto carismatica, da cui tutti dipendevamo psicologicamente, il cui umore la mattina determinava l’esito di tutta la giornata e anzi di tutta la settimana, e forse anche di tutta la vita, si indignò perché qualcuno di noi pivelli aveva pensato, con congruo preavviso e con molte esitazioni e tormenti, di non lavorare il lunedì dopo Pasqua. C’erano famiglie lontane da accudire o nuovi fidanzamenti da coltivare, era più di vent’anni fa ma anche allora c’era gente che riteneva che il ponte fosse qualcosa da celebrare con picnic, gite, ristoranti, sesso, code del rientro, scottature e acquazzoni, alcuni perfino con mezze maratone, arrampicate sui monti o partite di golf (che comunque è anche peggio che mettersi in fila in autostrada). Questa persona, vedendo i nostri trolley pronti (allora avevano soltanto due ruote) e le nostre facce da festività goduta, urlò semplicemente: pasquettari di merda. E se ne andò, certamente senza trolley.
Restammo così percossi, attoniti: da allora pasquettari di merda è diventato la definizione per tutto quello che esula dalla giornata lavorativa, cioè dalla vita normale, ma in un modo universale e incontrastabile. Quello di Pasquetta è per sua natura e convenzione un lunedì, ed è incomprensibile ma ineluttabile tornare al lavoro un po’ storditi il martedì, considerato che il venerdì è di nuovo festa perché c’è il ponte e poi arriva di nuovo un altro ponte e poi la festa dei lavoratori e intanto succede che muore il Papa e chi dovrebbe correre a piedi a San Pietro per descrivere il momento solenne, storico, epocale, tristissimo eccetera, si trova in questo momento invece a Heidelberg perché c’era ponte e pensava di lavorare da lì visto che dei cugini di quarto grado l’hanno invitato per le feste a dormire sul loro divano.
Da lunedì, però, sarà tutto finito fino ad agosto, a parte i ponti dei santi patroni che comunque sono meno esiziali e ci si può permettere di dire: non posso.
Ma per tutto il resto bisogna essere intimamente e socialmente disposti al ponte e non basta nemmeno essere presenti fisicamente, bisogna avere lo spirito giusto da pasquettari di merda. Non è che tu parti per il ponte e poi tiri fuori il computer, ad esempio. O dici: però stasera torno a casa. Ti diranno, infastiditi: non devi salvare il mondo, non stai facendo un’operazione a cuore aperto, dai, vieni a giocare a tombola, a burraco, a mercante in fiera, vieni ad accendere il camino, vieni a montare la tenda. Vieni a dirci che film hai visto durante il ponte, che libri hai letto durante il ponte. Allora tu chiudi il computer e vai a dire che film hai visto e che libri hai letto durante il ponte o anche non durante il ponte, ma sbagli: dici che quei film e quei libri ti sono piaciuti, che quell’attrice ti ha commosso, e allora non vale, non è interessante, non ce ne importa niente, sei una guastafeste, era meglio se restavi con il tuo computer a fare le tue scemenze o a prenderti un’insolazione.
Il perfetto pasquettaro, infatti, ha il dovere di vivere questi ponti con uno spirito unitario, festoso ed equamente distruttivo. Bisogna dire, per non subire riprovazioni sociali, che tutto è orribile, insopportabile, inutile, inguardabile, illeggibile, cretino, scandaloso, già visto, già scritto, improponibile, volgare, insulso, idiota, noiosissimo, finito, morto. Il tempo libero, il sole, le montagne, il mare, le tovaglie a quadretti esaltano lo spirito critico, ma soprattutto il ponte tanto agognato non va in nessun modo sprecato in elogi: se davvero vuoi tornare dai ponti ricaricato e di nuovo pronto alla lotta devi fare il pieno di apocalisse (altamente deresponsabilizzante e quindi entusiasmante) e dire a ogni occasione che il mondo è finito, che fa tutto orrore, che non c’è speranza. Poveri noi, in che momento viviamo: sdraiati nel campo di papaveri, dopo cinque giorni di ponte
E intanto, controllare il calendario, cambiare il trolley che nel frattempo si è rotto a furia di andare e venire, prenotare il volo e chiedere: dai, che facciamo per il prossimo ponte?