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L'intervento

Alle origini della rabbia che da trent'anni scuote la società del benessere occidentale

Paolo Cirino Pomicino

Le élite politiche hanno fallito, trasformandosi in élite finanziarie di un gruppo ristretto di famiglie. Serve un'immediata azione di redistribuzione della ricchezza

Le democrazie liberali dell’occidente sono da alcuni anni in affanno sul piano economico e sociale. Negli Stati Uniti, in Francia, in Italia e in Spagna, ad esempio, c’è un fiume carsico di rabbia che si evidenzia in maniera diversa da paese a paese. Negli Stati Uniti a quella rabbia dà voce da anni Donald Trump ed è giunta ad assaltare il Congresso americano, simbolo indiscusso della sovranità popolare sin dalla fine della Guerra civile nel 1865. La Francia di Macron è stata contestata prima dai gilet gialli e poi dalla lunga protesta di massa per la riforma delle pensioni che alzava di due anni l’età per andare in quiescenza, cioè da 62 anni a 64 (l’età più bassa in Europa). Ben poca cosa, come si vede, perché a 64 anni, oggi, si è ancora nel pieno delle forze se non si è stati colpiti da malattie. Eppure la protesta è stata tanto forte che Macron è dovuto ricorrere a una procedura speciale che gli consentisse di superare l’esame del Parlamento. L’Italia è sotto gli occhi di tutti con il suo declino del sistema politico e la sua rabbia che cresce, mentre in Spagna – dove sono sorti a destra Vox e a sinistra Podemos – i due maggiori partiti da diversi anni stentano a raggiungere consensi tali da mettere in piedi una coalizione stabile in tempi rapidi e ricorrendo, così, a elezioni politiche una dietro l’altra. Ma il risentimento delle componenti più deboli nelle società nazionali si vede un po’ ovunque e la politica fatica a contenerne gli effetti. Cosa mai è accaduto in questi ultimi trent’anni perché rabbia e risentimento crescessero anche nella parte del mondo dove il benessere è decisamente maggiore? E chi sono gli eventuali responsabili di queste tensioni?

Quasi quarant’anni fa, le élite mondiali hanno finito per diventare succubi, in molti casi volontariamente, di quella mutazione genetica del capitalismo internazionale che da economia di mercato si è trasformato in capitalismo finanziario nel quale la finanza, appunto, non era più un’infrastruttura al servizio della produzione di beni e servizi ma una industria a sé stante. Questa trasformazione nacque negli Stati Uniti quando Ronald Reagan alleggerì in maniera significativa il prelievo fiscale sulla ricchezza “manifatturiera e dei servizi”, alimentando così l’uso finanziario della liquidità lasciata nelle mani di una élite sempre più avida. Nello stesso tempo si avviò la ingegnerizzazione del capitale libero attraverso nuove professionalità (ingegneri, fisici, matematici) che costruivano strumenti finanziari dove la materia prima era costituita dai quattrini. Per ottimizzare questa mutazione genetica del capitalismo c’era bisogno di mercati adeguati e flessibili o, addirittura, deregolamentati come avvenne dal 1998. Fu così che crebbe in maniera esponenziale la liquidità disponibile che invase i mercati, e in particolare quelli deregolamentati, che sino ad allora erano governati solo dal rapporto domanda-offerta. Il caso più eclatante fu l’arrivo di flussi finanziari nel mercato delle materie prime che erano e sono la vita del mondo, per cui saltarono in aria i prezzi non solo del petrolio ma anche del gas, del grano, del caffè e di tanti altri prodotti che alimentano filiere manifatturiere e alimentari. Naturalmente, emersero anche i cosiddetti titoli tossici, come i derivati con varie tipologie, che nati per assicurare rischi commerciali o finanziari, divennero titoli negoziabili in tutti i mercati del mondo raggiungendo a oggi la mostruosa cifra di 632 mila miliardi, oltre sei volte il prodotto interno mondiale. Tutto questo è stato possibile grazie alla libera circolazione dei capitali completata agli inizi degli anni Novanta in un quadro di globalizzazione crescente. Questa trasformazione del capitalismo tradizionale ha consentito grandi ricchezze finanziare fuori dalla produzione di beni e servizi la cui diffusione garantisce il benessere della popolazione; grandi ricchezze che sono preda di una ridotta élite che governa gli stati molto più della politica. Grandi ricchezze finanziarie così concentrate hanno come corrispettivo l’impoverimento di larga parte della produzione e del commercio con alcuni paradossi come quelli presenti ad esempio nella filiera degli alimentari, dove la finanza e la distribuzione stanno soffocando gli agricoltori e in particolare i più piccoli. Da qui le crescenti diseguaglianze reddituali all’interno delle società nazionali, la lenta sparizione del ceto medio, un affanno anche nelle professioni (vedi i medici ospedalieri) e la sostanziale eliminazione di quell’ascensore sociale che rappresentava la spinta propulsiva delle giovani generazioni.

La politica ha favorito questo disastro anche con politiche fiscali e previdenziali che appesantivano le società manifatturiere e di servizi, favorendo la rendita finanziaria che in Italia, ancora oggi, è fortemente privilegiata. Se guardassimo la Terra da lontano, vedendo queste crescenti disuguaglianze che in alcuni paesi alimentano la miseria, saremmo assaliti da un moto di indignazione. Un’indignazione che facilmente si trasforma nelle periferie delle città ma anche nelle campagne, in rabbia e o in astensione o nel più pericoloso populismo che di volta in volta trova una voce che lo compatta e lo rilancia. Insomma, siamo dinanzi al fallimento delle élite politiche che in questi anni si sono trasformate in élite finanziarie di un gruppo ristretto di famiglie, i cui interessi governano il mondo che non a caso è afflitto da un disordine che la politica, sino alla fine degli anni Ottanta, riusciva a contenere liberando poi dalla povertà oltre un miliardo di persone anche grazie alla globalizzazione dei mercati prima che la finanza diventasse egemone. Una riflessione, la nostra, che postula una immediata azione di redistribuzione della ricchezza prodotta nelle macro aree lasciando crescere una ricchezza che sia compatibile con un benessere diffuso largamente inferiore in grado, però, di sostenere bisogni essenziali. Una sfida grande come quella del clima ma altrettanto essenziale per una politica che recuperi il proprio ruolo nel ridare a larga parte del mondo un nuovo ordine in grado di assorbire diversità geopolitiche e religiose.