I peccati del dire e del non dire

Dogmi e tabù. Viaggio tra le parole del pensiero comodo

Ginevra Leganza

Catalogo di tutto ciò su cui è meglio tacere per non mandare la cena di traverso agli amici. Dal “diversamente bello” ormai senza nome ai figli che sì, se ne parla, ma meglio non averne

Sette vizi, o peccati capitali del dire. Sette fra dogmi, fissazioni, ossessioni. Totem e tabù del contemporaneo. Da signora e signorina a mogli mariti e figli mai nati; e poi creature fantastiche e animali domestici; natura, cultura, ambiente. Possiamo dire che c’è di tutto. Sono i sette grandi temi insabbiati, almeno per metà. Le cose che non puoi dire se non sai come dire, o se non sai mettere le mani avanti. E sono solo sette dei tanti peccati che osiamo confessare. Si parte sempre dal meno grave (forse). 

  

I. Signora (o signorina)

Finte vergini, finte mogli, madri scombiccherate. Quelle che nella storia han contato qualcosa, spesso, erano donne sole. Le Elisabette, le Cleopatre, le Artemisie – signore e signorine – che ci piace pensare all’opera con tanti problemi pratici o estetici. Senza troppi intoppi linguistici. Ebbene, oggi che all’opera siamo in tante e i problemi pratici si risolvono in fretta, è – si capisce – tutto un gioco di parole. Tutto un problema di lingua che impunta. Della serie: Signora? No, direttrice. Direttrice? No, direttore. Direttore? No, direttora. Perché finiremo davvero per dire qualsiasi cosa a furia di politicizzare la lingua più poetica al mondo. Finiremo per dire tutto, forse persino direttora. Ma Signora e signorina, quelle no. E così c’introduciamo al primo dei nostri tabù.


Il giorno che il cameriere, rivolgendosi a una nostra collega, la chiamò “Signorina”, lei gli rispose tipo Totò nella Livella. Lurido porco! Come ti permetti? Ovvero: “Dottoressa! Sono una dottoressa!”. E mentre noi sbiancavamo perché comunque eravamo al Caffè Doria, davanti a tutti, e proprio non era il caso della solita cosa da femmina fintamente forte (la dottoressa) contro maschio veramente debole (il cameriere), ecco, mentre sbiancavamo e volevamo morire, era sempre più chiaro un fatto. “Signora” e “signorina” stavano diventando le nuove n-word (per intenderci: peggio di “negro” e “troia” nelle canzoni di Vasco Rossi). 


Stavano diventando quindi le parole che non si dicono ma che tanto dicono di noi, del nostro tempo. I nostri nuovi tabù lessicali che, dopo il caso Bonolis, risuonano ancora. E certo che il conduttore che chiama “Signora” una musicista, per giunta all’opera, è una cosa un po’ diversa dall’amica al bar che è laureata ma non direttrice (o forse direttore? Come caspita si dice?). E’ una cosa un po’ diversa, eppure pone una riflessione: catalogare maschi e femmine in base ai legami civili, oggi, non usa più. Forse perché i legami civili – istituzionali e di ruolo – non contano più. Ed è interessante quindi che persino a cena pretendiamo, oggi, d’esser chiamate “dottoresse”: persino a cena dove ci chiamano “signore” perché siamo o dovremmo essere con un maschio. Interessante perché spiega che la vetta sociale percepita, per la donna contemporanea, non è più la ragazza che se la gode – nubile o accasata. Non la signora o signorina al ristorante, bensì la zitella col master. Sia pure alla telematica.

  

II. Altezza, magrezza (mezza bellezza) 

Piuttosto diffusa tra le zitelle col master, sia pure alla telematica, è la fisima moderna sulla bellezza. Quella cosa che il critico Robert Hughes avrebbe definito la nostra “Lourdes linguistica” (meglio nota Cultura del piagnisteo). Son passati trent’anni da quel libro e oggi si chiama “body positivity”. E cioè il fatto per cui se si è un po’ atticciati o un po’ chubby, allora si dice: portatori di bassezza, diversamente smilzi, digiunatori intermittenti… Come se il giro di parole facesse miracoli tipo Lourdes, col paralitico che s’alza giusto perché gli si dice “ipo-ci-ne-ti-co” o col bassino che cresce tipo pianta irrorata dagli eufemismi. Comunque sia, la “Lourdes linguistica” prova che col bello abbiamo qualche problema. Probabilmente riteniamo sia tutto interiore, dentro di noi, come la legge morale di Immanuel Kant. Il quale però – cielo stellato a parte – diceva pure un’altra cosa, meno citata. E cioè che il bello è ciò che piace “universalmente e senza concetto”. Stando al filosofo, quindi, la bellezza è oggettiva e non dovrebbe avere rapporti col piagnisteo. Ma soprattutto: non dovrebbe offendere, come invece accade su Instagram dove la diversamente bella s’offende se neppure coi filtri diventa alta e magra come Emma Stone – altro che Barbie. 


Ma adesso, pensate se qualcuno si offendesse perché non è atleta (la bellezza fisica, come il talento fisico, è una dote che non si discute), e quindi pensate se qualcuno si offendesse perché non gioca a racchettoni al livello del santino nazionale Jannik Sinner. Non oserebbe. Perché col talento sportivo – e lo sport è sacro, una liturgia – s’hanno sempre meno problemi che col bello puro, spietato, immobile. Ma tutto questo discorso – e tutti i nostri problemi – partono forse da un libro. E’ il Mito della bellezza di Naomi Wolf, femminista fissata con le querele – ne sapeva qualcosa il critico Harold Bloom (per intenderci, il Me Too prima del Me Too). Nei Novanta Wolf decostruiva il bello: non universale, non senza concetto, ma tutto costruito e concettuale. Il bello, insomma, come costrutto sociale e patriarcale. A risponderle fu Camille Paglia, che la metteva invece sulla decadenza e la debolezza di questa visione, incapace di accettare ciò che esiste: universalmente e senza concetto. Quello che Camille Paglia non sapeva, ma che forse ora sa, è che il Mito della bellezza, e del “diversamente bello”, avrebbero poi attecchito. In questi mesi, per dire, c’è una mostra alla Wellcome Collection di Londra. S’intitola Cult of beauty e tra gli altri c’è chi ha voluto “attaccare l’ego femminile con un assemblaggio di opere dove la più importante è lo specchio di un bagno”. Ovvero il luogo in cui comincia e finisce la giornata fra trucchi, abluzioni, ma pure deiezioni, e che spiega la parabola di tutta questa faccenda. Dove a furia di dire che tutte son belle, finisce che anche i cessi lo sono. Letteralmente. (Del resto, la decadenza, come le deiezioni, cominciano sempre in un bagno). 


PS Ma poi perché ostinarsi col bello se esiste la categoria dell’affascinante? Questa meravigliosa voce del gusto che non discrimina né grassi né bassi né nasi greci. Dopo i vent’anni, dovremmo saperlo.

   

III. L’amore è la cosa più importante (ma non sottovalutarne le conseguenze)


A proposito d’amore – dei suoi demoni e delle sue conseguenze – un uomo innamorato violenta una donna; poi dice: “Sembra violenza carnale, invece è la casa che è piccola!”. 


Cronaca nera? Black humor? No, teatro. 


Ci capita così di andare a vedere Antonio Rezza, il performer massimo del teatro d’avanguardia. A un certo punto dello spettacolo – siamo al teatro Vascello di Manuela Kustermann, a Roma – dopo che Rezza ha già varcato i confini della parola, sgretolato ogni tabù, dissacrato tutto e tutti (dèi, patrie, famiglie: lo spettacolo si chiama Hybris), ecco levarsi un urlo dal pubblico. “Sei una merda!!!”, dice, “Machista!!!”. Ci sporgiamo – il teatro è buio, affollato, che meraviglia. Fra le poltrone, scopriamo una silhouette. Una sagoma imbacuccata che si dissolve, adesso, fra le spire d’una sciarpina e le tende. 


Rezza, che sul palco è nudo – smutandato e con fantasmino al piede – fa un attimo di silenzio. Poi: “Cos’ha detto? Sei una merda?! Machista?!”. Secondo attimo di silenzio… “Sei una merda. Ma ci sta!”. Il pubblico ride, si rianima. Tutto si riassesta e gli attori sul palco sospirano. Il Vascello è salvo. 


Ma cos’aveva detto Antonio Rezza da far scricchiolare gli spalti? Il performer che in scena bestemmia, sbatte le porte, cala le braghe, parla d’incesto e persino d’eutanasia… Cos’aveva detto che proprio non si poteva dire? Ebbene, Antonio Rezza aveva toccato un nervo più scoperto degli altri. Più che un tabù, il dogma vero dei nostri tempi: l’amore, coniugale o non, che come si suol dire è la cosa più importante. Aveva così mimato, a metà spettacolo, l’atto sessuale d’un uomo, o meglio d’un marito, che dispone la moglie quadrupede, e a un certo punto ripete agli astanti: “Sembra violenza carnale, invece è la casa che è piccola!”. E dunque merda, machista… E poi “Merda, ma ci sta!”.  Uno spettacolo nello spettacolo. Meta-teatro o teatro interattivo. In ogni caso una scena fortissima che il nostro cuore fragile non ha retto. Perché sembra impossibile, oggi, dire che amore e violenza – bene e male – son contigui come bagno e cucinino in una casetta. 


Sembra impossibile dire che oltre la porta di casa, dietro San Valentino e gli arcobaleni pansessualisti, c’è sempre e comunque un dark side. Ovvero un maschio amante ma violento, una donna innamorata ma insopportabile, una coppia omoerotica che compra neonati ma che in fondo non conta: “E’ l’amore la cosa più importante”. E’ questo il dogma dei nostri tempi: l’amore che si vorrebbe puro, pulito, tutto cuori e “weekend a Parigi”. L’amore di cui sempre si scordano le conseguenze. E cioè i rischi, i pericoli, i coni d’ombra che l’accompagnano. Con la vita coniugale che se s’incentra sulla sola passione poi pesa; la vita famigliare, binarista o lgbt, che un figlio val bene il mercato nero… E va bene, è l’amore la cosa più importante. Ed è impossibile perciò dire, come scriveva Voltaire alla voce “Amore”, che quel sentimento è un po’ come l’oro quando si lega e amalgama agli altri metalli, sempre meno preziosi. 


Impossibile dire che l’amore più lo si pensa puro più è spaventoso (vedi il senso del possesso, vedi i figli comprati…). Ma questo è il presente, appunto. Progetti per il futuro? “Non sottovalutare le conseguenze dell’amore”. 

   

IV. Maternità (priorità)


Fuoco, fuochino, fuocherello. Focolare mai. Di maternità si parla, direte. Perché tabù? In effetti è vero. Di maternità si straparla. Talk, podcast, Sanremo, Strega, Campiello… Parlare, parlare, sparlare o se preferite parlarsi addosso. Com’è tipico di tutte le cose che più le dici meno le fai. E l’importante, anche qui, è parlare ma non praticare. Senza scoperchiare dunque l’orcio dei mali, e cioè l’Istat che segna 3.500 nascite in meno nel 2023, riprendiamo un titolo di Lucetta Scaraffia, referente in materia. E’ questo il momento della “fine della madre”, dice la storica riferendosi soprattutto alla surrogata che scompone la madre in due, tre e quant’altri ci occorre (donatrice, gestante, acquirenti). Ed è cioè l’èra in cui la madre diventa una figura mitologica, come una musa del dibattito pubblico. Figura che però – fra surrogate e nuovi stili di vita – è sempre più assente dalla realtà. Perché di maternità si parla, l’abbiamo detto, ma sempre in termini astratti, come categoria della chiacchiera (maternità e carriera; carriera e asilo nido; nido e surrogate…). Di mamme si parla, ma nel concreto i figli non ci sono. Sicché se una – sia pure con tono andante – accenna alla concretezza delle cose (“la maternità torni cool”), ecco lo scandalo. 


Francesca Fagnani, la bella belva, insorge su X: “La senatrice sta dicendo che bisogna far diventare cool per le ragazze sposarsi a diciott’anni e fare figli. Mica studiare, prepararsi, realizzarsi, viaggiare, acquisire consapevolezza ecc…”. Ed ecco, a parte il fatto che “studiare viaggiare eccetera”, con l’Erasmus, lo diciamo e lo facciamo un po’ tutte, e che se una dice diversamente non è poi così grave – non per questo siamo nel ‘78 de L’amore in Italia di Comencini, con le donne baffute rinchiuse in casa – ecco, a parte questo, è chiaro che la turbolenza e lo scandalo sono spia del tabù. Anche perché, volendo razionalizzare, quelle della senatrice sono e restano parole. Parole che con o senza asili nido, con o senza congedi, a nessuno interessano più (per intenderci: in Europa, nella presunta prolifica Francia, con tutto il sostegno alla natalità di figli ne fanno 1,8 a donna, mica 8,1. Quindi hai voglia a dire, investire, proclamare: proclami e prole viaggiano separati). 
Comunque, dicevamo: “fine della madre”. Non Freud, non parricidio. Tantomeno invidia del pene. Ma fine di lei, della donna-donna – stando al “femminismo della differenza”. E cioè della femmina che ha una forza diversa da quella del pene. Della donna che oggi – per carità – come una belva, come un maschio e un po’ come tutte noi, studia, viaggia, lavora… Ma che si qualifica come donna per un altro motivo: oscuro, umido, un po’ spaventoso (gli induisti la chiamano “Yoni”: nascita, riposo, origine del mondo di Courbet). E che ci piaccia o no, e non ci deve piacere a forza, questa è la cosa: oscura, umida, un po’ spaventosa. Ma una cosa, come si dice, è una cosa.


Ancora interessante, poi, giacché parliamo di procreazione, è considerare il dogma del contraccettivo. Pillole e preservativi che, sorvolando sulla percezione poco romantica che c’ispirano, non possono essere profanati. Neanche per scherzo. Neanche se uno studio su PubMed parla della pillola in termini opachi. Ritenendola forse causa della diminuzione dei livelli circolanti di androgeni, estradiolo e progesterone, nonché dell’inibizione dell’ossitocina (“L’uso di questi ormoni”, riporta PubMed, “potrebbe alterare il legame di coppia, ridurre la risposta neurale all’aspettativa di stimoli erotici, aumentare la gelosia sessuale”). E tuttavia mai discuterli, questi dogmi e questi ormoni. Neanche se ci prende la “gelosia sessuale”, ohibò. Neanche se nostra cugina ammette di sentirsi un poco lessa quando lui si avvicina. Mai discutere le sue strane inibizioni (che no, non fanno parte del sesso). Pillola e condom ci han fatto dono del sesso libero (che bella cosa), poi del sesso sicuro (che bell’ossimoro). Ancora un poco e – fra “gelosia sessuale” e ossitocina stecchita – ci faranno dono del sesso cool: sicuro, anzi sicurissimo. Quello che già nei Settanta Norman Mailer raccontava nel Prigioniero del sesso. E cioè quello totalmente anti-procreativo, coi medici che auspicano incubazioni extrauterine e l’abbandono dell’amore quale mezzo di “rinnovamento della società”. Faremo quindi il sesso cool e sicuro, anzi sicurissimo. Che è solo quello che non si fa. 

  

V. Aborto (non nominarlo invano)


Sarà per la parola, grave e tremenda. Per il latino pesante, aboriri, che significa appunto “perire, svanire”, in una parola: “morire”. E sarà dunque per i nomi, cui sempre seguono le cose. Ma già nominarlo, l’aborto, è quantomeno imprudente. Come uno smacco alla buona conversazione. E il fatto – visto l’etimo – è che non sta bene parlare di morte. 


Ripartiamo da un promemoria: di tutto ciò di cui non si può parlare è meglio tacere. O se non altro è meglio tagliar corto. E come sempre capita anche a noi con le amiche, sull’aborto si tace, si taglia corto. Si glissa per non finire sopraffatte e sfiancate a cena e per non dire che sì, certo, ovvio: l’aborto è un diritto – in Francia, con Gabriel Attal, addirittura costituzionale – ma soprattutto, ahinoi, l’aborto è un’extrema ratio. E cioè una soluzione soggettivamente ragionevole, che se non è dolorosa – anche il dolore è soggettivo – è perlomeno tragica (e il tragico no: da Medea in poi non è soggettivo ma universale). Comunque no. Nulla. Tabù. Se lo dici, ti smembro a cena.  Dire insomma che abortire è una tragedia, evocare addirittura Medea, non si fa. E’ subito Polonia, Alabama, romanzo di Margaret Atwood. Perché dell’aborto, oggi, bisogna gioire sempre. E della morte, più che altro, bisogna gioire sempre (vorrai mica passare per strega reazionaria? Devi gioire, becchina e contenta). 


Ma, domanda: volendoci provare, a gioire, di preciso cosa bisogna fare? Ebbene, la soluzione è sempre lì dietro l’angolo. In quel gioco di cose e nomi che muove stavolta in direzione dell’eufemismo. Così, quello che noi realiste chiamiamo aborto, per le amiche surrealiste è IVG, ovvero “interruzione volontaria di gravidanza”. Della serie: quest’aborto non è un aborto. Surrealiste? Orwelliane? Fate voi. IVG è l’acronimo che si utilizza suppergiù dal ‘75, insieme ad altre espressioni un po’ paravento: pre-embrione, feto non vitale eccetera. Tutte parole meno dure, chiaro. Ma a farci caso tutte figure retoriche, di suono o di senso, che più che alla realtà vanno incontro alla realtà che sogniamo. Dolce, tiepida, a-tragica. Una realtà surreale oppure un videogioco, dipende.


Comunque, al di là delle figure retoriche, delle litoti e degli eufemismi – tic piccolo-borghesi (lo diceva già Arbasino in Paesaggi italiani con zombi) – ecco, al di là di questo, ci soccorre oggi il sociologo Luc Boltanski, che con la sua inchiesta La condizione fetale non ha dubbi. Alle parole, dice, seguono le cose. E l’IVG, dice Boltanski, non fa eccezione. “Interruzione volontaria di gravidanza” in luogo di “aborto” serve sostanzialmente a normalizzare, e cioè a spostare l’attenzione dal feto alla sua rimozione, che smette così d’essere brutale e diventa un banale intervento medico. Non morte e non aborto – sia esso egoistico legittimo o razionale – ma semplice fatto chirurgico. Gesto sicuro e disinvolto che, scusate la brutalità, gratta via un prurito dalla mia vita. Non a caso, proprio in questa direzione s’orienta un certo dibattito, spiccio ma efficace. Con le millennial che fanno dramma d’ogni nonnulla, ma che sull’aborto planano con leggerezza: “Non bisogna associare l’IVG al dolore!!!”. E sarà pure un dibattito da accademia anglo-woke, direte. O da scrittrici influencer che per questioni di stile non vorremmo citare (ignoriamo le nostre amiche a tavola, figuratevi le altre). Ma è pur sempre un dibattito che fa luce sull’andazzo. 


Aborto, da aboriri (svanire, morire), non si può tanto pronunciare. Meglio tacere o tagliar corto per non finire sfiancate dalle amiche a cena. Quelle che non vedono quanto l’IVG faccia più comodo a lui che a lei. Perché l’aborto fa più comodo al maschio, l’irresponsabile, che sta senza pensieri, che non si carica il peso di togliere la vita, di farla svanire. Basterebbe avere un fidanzato o un amante o un amichetto a caso, guardarlo un po’ da vicino, e rendersi conto che l’IVG non fa il nostro gioco. Non il gioco delle donne. Giacché l’aborto è sì una libera scelta, ma la vita svanisce sempre in solitudine. Crescere un figlio forse no, forse si fa in due. 

  

VI. Animali, totem e caccia 


Tutta una pagina su quel che si può dire, non dire, come dire… Tutta una pagina, anzi due, e George Orwell non l’abbiamo quasi mai nominato. Ma eccoci, parlando finalmente di animalisti, eccoci allo scrittore tanto ma mai abbastanza citato. “Ci sono persone con cui è impossibile discutere”, si lamentava Orwell. Sì, ma quali? “Comunisti – era prevedibile – e vegetariani”. Sì, vegetariani. O, per essere più generici, animalisti: e dunque anche i vegani, i fruttariani, i macrobiotici, gli anti caccia… Quale che sia la dieta, vale sempre George Orwell: impossibile parlarci. E se proprio bisogna, occhio a non dire che l’animalismo è pericoloso, che l’animale non è morale, che se non ha diritti e doveri è perché banalmente non scrive le leggi e non le rispetta o, come dire, quando ha fame ti mangia. Cose ovvie, banali, ma che insomma no. Non si possono dire. A questo punto potremmo non aggiungere altro. Se non fosse che Facebook, Instagram e Whatsapp aggiungono fuoco a casa bruciata. 


Nella trentina Val di Sole, battendo sul tempo il ricorso degli animalisti, hanno appena abbattuto l’orso M90. Vicenda che su Internet fa il paio col solito alce che nell’Oregon ogni tanto incorna qualcuno. Ebbene nei casi di animale, uccisore o ucciso, scoverete sempre meravigliosi commenti. Commenti che manco Orwell, che manco “i comunisti mangiano i bambini” (a riprova che gli animalisti sono i maoisti oggi). Commenti surreali, esatti termometri della stupidità umana (e totemica). “Ben gli sta!”, scrive uno; “assassino!”, fa eco l’altro riferendosi al cacciatore, mica all’alce; “se l’è cercata”… E avanti così: col “Se l’è cercata”. E cioè col fucile tipo minigonna e l’alce che stupra l’imprudente. Ma ancor più, con l’uomo come olocausto e l’animale come officiante. Cose di un altro pianeta, direte, da Fattoria degli animali o da romanzo di Urania, la mitica collana di fantascienza Mondadori. Invece no, cose del paese nostro, cose di questo pianeta. E a proposito di “Pianeta”… 

 

VII. Crisi climatica 


A proposito di Pianeta – con la P maiuscola – arriviamo adesso alla fine del mondo. Dulcis in fundo. E cioè alla crisi climatica, che se parli d’ambiente non puoi non premettere, non dare per scontata, per postulata. O, se vogliamo, per mistero svelato. Crisi climatica che, sempre in tema di animali fantastici, è una cosa strana, affascinante, sfuggente. Un po’ come la fenice: che vi sia ciascuno lo dice, dove sia – e cioè da cosa effettivamente dipenda – nessuno lo sa. 
Franco Prodi, già ordinario di Fisica a Ferrara e direttore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima al Cnr, dice spesso – anche su questo giornale – che i cambiamenti climatici, per quel pochissimo che sappiamo, dipendono da noi solo per il 2 per cento. L’altro 98 pare tutto un gomitolo di concause che si dipanano fra crosta terrestre, atmosfera e addirittura “aspetto gravitazionale degli altri pianeti”. Stelle, cieli e lontane divinità che insomma, dal nostro punto di vista (evidentemente epicureo), se ne fregano dell’uomo. Per non dire dell’uomo-bianco e delle sue fanta-teorie. E cioè delle spiegazioni che lo stesso uomo bianco (mica quello nero a due passi dall’equatore) ha bisogno di dare a tutto: al troppo caldo, al troppo freddo, al ghiacciaio che scioglie, all’orso bianco che è macilento e a tutte le piaghe d’Egitto che da lassù ci mandano perché stiamo troppo bene. Troppo benessere. 

 
Ma i pianeti – per non dire del pianeta in minuscolo – se ne fregano dell’Antropocene: di questo mito preistorico aggiornato al millennio. Mito che serve a capire ciò che non capiamo. A far teoria di ciò che non sappiamo. E se ne fregano pure dei nostri rituali per ingraziarci gli dèi: delle città in quindici minuti e delle docce di trenta secondi. Danze della pioggia aggiornate al millennio. Riti, dogmi, totem e tabù.