Il pensiero

Aprire gli occhi su ciò che ci è più prossimo è la via maestra della conoscenza

Alfonso Berardinelli

L'antropologia del restare di Vito Teti, l'ossessione dei viaggi e la necessità di riscoprire la propria realtà locale, di stabilizzarsi è un richiamo alla bellezza delle cose vicine e familiari che spesso trascuriamo o diamo per scontato

Non ne posso più di viaggiare. Mi è venuta la nausea. Una volta mi piacevano i treni e le stazioni ferroviarie. Mi sembravano promettenti. C’era ancora in me il bambino che in treno guarda incuriosito oltre il vetro, osserva gli alberi, le case, i casali, le rimesse, la fine dell’abitato e l’inizio della campagna di cui non sapevo niente. Qualche mucca, qualche gregge di pecore nei prati. E chiedersi chissà come ci si sente a stare, a vivere in quella casetta così isolata su quella collina. Chissà cosa si prova a guidare quel trattore…
 

E mi piacevano gli aeroporti. Una volta superata la barriera dei documenti e dei controlli mi sentivo libero di pensare a un me stesso in un altrove, a quello che non ero e che forse avrei potuto essere. Viaggiare è fantasticare. Viaggiare è osservare. Viaggiare è sentire che la propria percettività si intensifica e si libera pur non avendo nessun preciso scopo. Poi è lentamente cominciata la nausea di una tale prolungata adolescenza. Nausea dell’industria turistica. Nausea della vanità di andare altrove a cercare un’altra vita (un alibi!) e un’altra felicità possibile: o meglio del tutto immaginaria. Sì, vanità, stupidità del viaggiare per dire poi di aver viaggiato. Di essere stati a Stoccolma e Sao Paulo, a Seattle e a Siviglia, a Istanbul e a Praga.
 

Da quel letterato che sono, mi è venuto in mente Calvino, uomo così prudente e risparmiatore di energie, mascherato però da individuo avventuroso. Ma Calvino ha scritto due libri magnificamente stanziali come Le città invisibili e Palomar, nei quali si immerge in microrealtà reali o irreali per osservarle e contemplarle nei loro minimi e innumerevoli dettagli… Che cos’è un’onda del mare? È descrivibile? Che cosa c’è in un piccolo prato? Come è fatta una città inesistente e fantastica? Quante cose si possono capire di una società guardando gli sconosciuti che si incontrano per la strada?
 

Allora mi sono detto che quello che ho sotto gli occhi non l’ho mai visto veramente. E che del quartiere in cui vivo e sono vissuto per decenni ho visto e guardato assai poco, distratto da un oblio dovuto all’eccesso di consuetudine. Ho appena ricevuto l’ultimo libro di Vito Teti, antropologo che ha scelto come suo tema e oggetto privilegiato il restare, i luoghi vicini, quelli nei quali viviamo e su cui così spesso chiudiamo gli occhi. Se penso alla inesauribilità anche del mio solo quartiere (quello dell’eroica Repubblica romana del 1849), se penso a Roma, al Lazio, all’Italia, all’Europa con il loro concentrato di storia e cultura, di genialità e di crimini, allora non restare ma andare altrove (il mito di Baudelaire e in genere della modernità) mi sembra un assurdo, una specie di colpa, una futilità imperdonabile. Dell’Asia e dell’Africa mi basta sapere quello che si può capire leggendo (ho visto Calcutta e mi basta). È semmai il sud e il nord dell’America a essere per noi nello stesso tempo l’altrove e l’Europa, un’Europa rinata altrove.
 

Questo nuovo libro di Vito Teti, Pietre di pane (Quodlibet, pp. 219, euro 20), ha come sottotitolo “Un’antropologia del restare” e si apre con una bella introduzione seguita da un prologo in cui sono riassunte le sue passioni e l’origine della sua singolare vocazione di studioso. Incominciare a studiare riflettendo sulle proprie esperienze mi sembra il modo migliore per non evadere professionalmente dalla propria realtà autobiografica. Troppi sono invece oggi gli studiosi che studiano non si sa perché, né perché certe cose e non altre. Il maggiore difetto dei filosofi, ad esempio, è non dire mai chi sono loro e quali esperienze personali hanno determinato le scelte del loro studio della filosofia e del loro filosofare (etica, epistemologia, estetica, logica, politica, fisica e metafisica). La mente dei filosofi è quasi sempre una mente senza occhi e priva di sensi. Ma Goethe capì bene quale è la migliore gerarchia della conoscenza: il sapere è il livello più basso, al di sopra del quale c’è il pensare, ma la cosa più alta è il vedere, il saper guardare.
 

La mia simpatia per la vicenda intellettualmente personale di Vito Teti è (purtroppo per me) solo una simpatia teorica e di principio, perché non sono mai riuscito a dedicarmi di più alle cose prossime senza essere attratto, anche troppo, da quelle remote. Sono un romano che non ama Roma e un italiano mentalmente in fuga dall’Italia (di cui apprezzo soprattutto le città di provincia, più ancora se ignorate). Questo è un grave difetto che ho sempre giudicato tale senza però essere capace di correggermi davvero.
 

Testaccio, il quartiere in cui sono nato e ho abitato fino a vent’anni, mi ha trasmesso già nell’infanzia una certa tristezza per la sua mancanza di attrattive estetiche (fra lo sporco Tevere, il mattatoio e il monte dei cocci). La sola cosa che mi ha dato e che non dimentico è l’appartenenza al proletariato romano di una volta, con il suo odio per la retorica e la sua sete di cultura. L’Italia mi commuove, il suo destino politico mi fa piangere e la sua letteratura, salvo eccezioni, ho cominciato a capirla meglio solo dopo i trent’anni: prima credevo che mi servisse poco. È stata piuttosto l’Europa a interessarmi, ma proprio nel momento della sua meritata decadenza, dopo quello che era riuscita a fare nel corso di due atroci guerre mondiali. Forse è per questo che sono stato attratto in particolare dalla cultura degli anni Trenta, quando gli intellettuali europei, i migliori, cominciarono a capire che cosa era accaduto e stava ancora accadendo in Russia, Italia, Germania, Spagna.
 

Non sono riuscito a recensire Vito Teti. Ma lo ringrazio davvero per il suo ottimo libro di autobiografia intellettuale. Onestà e passione hanno fatto di lui non solo uno studioso ma anche uno scrittore. Lo ringrazio per essere stato, a nostro vantaggio, un teorico del restare piuttosto che dell’andare via. Se non sono riuscito a recensire il suo libro è perché mi ha costretto a un breve esercizio pubblico di autocoscienza.

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