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Capire come parliamo

Un dedalo di piazze e stradine, ma nessuna privata: ecco cos'è il linguaggio

Sergio Belardinelli

L'arte di parlare e di comunicare è intrinsecamente pubblica e regolata da norme, come disse Wittgenstein. Pur essendo intersoggettivo, alcuni usi sono unici e difficili da tradurre. La tensione tra pubblico e privato lo arricchisce, contrastando la superficialità

Se c’è una dimensione dell’umano linguaggio che appare incontestabile è la sua intersoggettività, la sua dimensione pubblica, il fatto che esso serve a comunicare. Eppure ci sono studiosi che lo considerano invece una sorta di pratica arcana, qualcosa di “privato”, i cui significati sono in realtà accessibili soltanto in prima persona, e che di conseguenza ritengono sia impossibile una qualsiasi autentica comprensione e traduzione. Ben strano modo di pensare, considerato che, estrapolando un argomento aristotelico, costoro dovrebbero ritenere che sia almeno comprensibile quanto dicono a proposito della  incomprensibilità e inaccessibilità dei significati altrui. Ma tant’è. Argomenti molto interessanti contro questa sorta di solipsismo linguistico si trovano nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, dove il linguaggio viene presentato come un sistema di regole. Dominare un linguaggio equivale a dominare le regole che ne governano l’uso. Un po’ come se si trattasse di un “gioco”, si viene “addestrati” a seguire una regola, quindi a cogliere i possibili errori, a distinguere ciò che può sembrare corretto da ciò che non lo è. La prassi linguistica, in altre parole, è sempre correlata a una regola che ne garantisce in qualche modo l’intersoggettività e quindi il controllo pubblico. Ma questo non significa che il linguaggio rappresenti per chi lo parla una sorta di gabbia, i cui significati sono già predeterminati. Nessun linguaggio, per Wittgenstein è “completo”. Gli “ordini” che si traggono dalle regole, sono soltanto una parte di ciò che esse contengono; “sono, per così dire, i sobborghi del nostro linguaggio. (E quante case o strade ci vogliono perché una città cominci a essere una città?). Il nostro linguaggio – continua Wittgenstein – può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi”.

Forse è questo “dedalo di stradine e piazze” a confondere i solipsisti, offrendo loro qualche apparente appiglio. Sta di fatto che è per questo suo essere sempre in fieri, diciamo pure, per questa sua apertura, che il linguaggio, oltre a essere una pratica pubblica, è anche una pratica originale, privata, in certi casi addirittura unica. Lo sanno bene i poeti. La pubblicità del linguaggio non esclude l’unicità di certe suoi usi, né le difficoltà che si hanno a comprenderli e tradurli. “Comprendere è tradurre”, dice George Steiner. Ci sono pensieri che soltanto determinate parole, in determinate posizioni, possono esprimere; pensieri faticosi da pensare e faticosi da comprendere; pensieri e parole che qualche volta vorrebbero esprimere l’inesprimibile, rendendo la comprensione-traduzione difficilissima. Ma non si potrà mai dire che la comprensione-traduzione è impossibile in linea di principio. Del resto, se così non fosse, se le nostre parole non comunicassero significati accessibili anche a chi ascolta, non potremmo nemmeno formulare la difficoltà di cui stiamo parlando. Un po’ come sono state dette o scritte, dunque, le parole potranno essere anche comprese; ma ci vorranno soluzioni traduttive il più delle volte imprevedibili, generate creativamente, non meccanicamente. Qualche volta potrà succedere addirittura che certe parole appaiano intraducibili, ma non per questo ci si dovrà perdere d’animo. Colui che cerca di comprendere e tradurre, se ci pensiamo bene, è soprattutto un testimone della fiducia che nessun uso linguistico sarà mai così “privato” da non poter essere in alcun modo reso “pubblico”, accessibile anche agli altri. Anzi, il linguaggio pubblico si espande e si affina proprio grazie all’unicità di certi usi delle sue parole

Non starò a dire quali dinamiche storiche, sociali, psicologiche, e quali conflitti si mettono in moto in questa sorta di dialettica pubblico/privato, dove le parole sono quelle di tutti, ma sono anche quelle con le quali, più o meno faticosamente, si cerca di esprimere ciò che sentiamo soltanto nostro: l’incanto per una cosa bella, la violenza dell’odio, la rabbia, il languore dell’amore, la vertigine dell’estasi. Sta in questo suo uso difficile, “privato”, nel senso che abbiamo già detto, che il linguaggio, forzato a volte a dire l’indicibile, si arricchisce di spessore semantico, si carica di quell’indispensabile “zavorra”, come la chiama Steiner, che lo preserva dalla squallida superficialità che oggi vediamo all’opera sui social e negli stereotipi televisivi ai quali ci stiamo abituando. Tutti usiamo ormai le parole di tutti e tutti possono parlare di qualsiasi cosa anche a nome nostro. Niente di più normale, dunque, che coloro che non si rassegnano a questo stato di cose, specialmente gli artisti e i poeti, reagiscano con espressioni sempre più ermetiche o addirittura col silenzio. Il linguaggio pubblico sembra quasi compiacersene, come se si liberasse di un fastidio, ma nel contempo muore. Proprio come le anime morte di coloro che lo parlano.

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