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PARADOSSI AMBIENTALI

Il bosco della discordia: dal Regno Unito all'Italia si litiga sugli alberi

Fabio Bogo

Gli ambientalisti vogliono più piantumazioni per compensare le emissioni, ma il rischio è un effetto greenwashing e meno terra agricola. In mezzo ci sono gli interessi dell'industria del legno 

In maniera non proprio elegante, il messaggio che Mark Spencer, sottosegretario all’Agricoltura nel governo britannico, ha mandato a tutte quelle organizzazioni che si propongono di piantare alberi nelle campagne del Regno Unito per compensare le emissioni di CO2 delle imprese industriali, potrebbe sintetizzarsi così: “Sapete dove potete metterle le vostre piante?”. Non è difficile da immaginare. E così, al grido subliminale di “meno querce e più cavolfiori”, è partito la scorsa settimana un nuovo attacco che scalfisce la sacralità dell’albero e il suo ruolo salvifico per l’ambiente. Intendiamoci, che la presenza degli alberi faccia bene al pianeta non è in discussione. Ma non è tutto oro quello che luccica.

E’ stato oro sicuramente per Verra, l’ong gigante che da Washington gestisce le compensazioni di carbonio tramite la piantumazione nei paesi del terzo mondo. La miriade di approvazioni date negli anni da Verra ai progetti di multinazionali e altre imprese con sensi di colpa ambientali – hanno rivelato in un’inchiesta il settimanale tedesco Zeit e il quotidiano britannico Guardian – non ha sortito effetto: il 94 per cento dei progetti non ha compensato il carbonio. Ha compensato però i conti di Verra. Alberi fantasma, dunque.

Sono reali invece quelli che si progetta di impiantare nelle campagne inglesi, da cui l’allarme lanciato da Spencer. “Dobbiamo stare attenti al greenwashing – ha detto al Financial Times – altrimenti vedremo Shell e British Airways comprare tutta la terra inglese per piantare alberi e abbattere nominalmente le proprie emissioni”. Spencer ha trovato il sostegno degli agricoltori, già messi a dura prova da una stagione che ha rarefatto sul mercato la presenza di molti ortaggi cari alle famiglie inglesi, e adesso allarmati dalle crescenti richieste di acquisto di terreni da parte di compagnie petrolifere, produttori di auto e compagnie aeree. L’offerta è allettante, 9,5 sterline ad acro in Inghilterra e Galles,  quasi il 7 per cento in più dell’anno precedente. Tom Bradshaw, a capo della National Farmer’s Union, la mette giù così: “Non dobbiamo farci espellere dal territorio, il nostro dovere è produrre cibo, fibre ed energia per il paese”. Hanno ragione gli agricoltori o i volenterosi abbattitori di emissioni? Il dibattito è aperto. Ma intanto il mercato dei crediti di carbonio è entrato in crisi, assieme ai dubbi e alla sfiducia crescente delle aziende nei confronti dei progetti di riforestazione. Solo negli Stati Uniti, il calo è stato dell’8 per cento nei primi sei mesi del 2023.

Il processo alle verdi chiome è partito anche in Italia, seppure con sfumature tutte diverse. Dopo l’alluvione in Emilia-Romagna, qualcuno si è chiesto: “Ma perché gli alberi non hanno ridotto le frane? Non siamo forse il paese con un continuo aumento della superficie forestale? E’ vero, la superficie arborea in Italia continua a crescere, lo certificano i rapporti dei Carabinieri forestali. Ma a causa dell’abbandono delle campagne”. La realtà è che abbiamo bisogno di alberi buoni – è la tesi di Ettore Prandini, presidente di Coldiretti – mentre con lo spopolamento delle aree rurali cresce il sottobosco, che ha poche chiome e non frena gli smottamenti”. Serve un bosco in salute, in sostanza. Che va curato. E qui l’ennesimo paradosso italiano.

Il governo a fine settembre con un emendamento approvato in commissione Agricoltura al dl Asset ha rimosso l’obbligo di richiedere l’autorizzazione paesaggistica delle sovrintendenze per il taglio boschivo. Quanto basta per far divampare l’incendio, per fortuna solo verbale. Già, perché l’industria del legno plaude alla possibilità di rilanciare il settore; gli enti locali tirano un sospiro di sollievo nel vedere diminuire il carico burocratico che li soffocava nella partita di richieste, eccezioni normative  e veti; gli ambientalisti sono in rivolta per quello che ritengono uno scempio che lede i princìpi della Costituzione. Il più duro è Angelo Bonelli, parlamentare e portavoce di Europa Verde, che definisce l’emendamento “un atto di guerra contro la natura, in linea con le posizioni del partito di Giorgia Meloni che contrasta le politiche sul clima e che ha votato contro la legge sulla natura europea”, e denuncia la violazione dell’articolo 9 della Costituzione, parlando di “golpe contro la natura”. Durissimo anche il commento di Gufi, acronimo che sta per Gruppo unitario foreste italiane, che vede all’orizzonte “lo smantellamento di ogni tutela ambientale e paesaggistica”. Non ci sta Mauro Agnoletti, titolare della cattedra Unesco sui paesaggi del patrimonio agricolo, e autore di “Storia del bosco italiano”, pietra miliare della letteratura silvestre. “Secondo alcuni si tratta dell’ennesimo attacco alla biodiversità, alla conservazione della natura, nonché alla Costituzione, che porterebbe alla distruzione dei boschi e al degrado del paesaggio. In realtà la norma vuole fare chiarezza riguardo a una interpretazione che, in molti casi per incompetenza, ma spesso per una opposizione di tipo ideologico, equipara l’esecuzione di operazioni selvicolturali alla rimozione permanente del bosco”. Agnoletti non le manda a dire e spiega ai difensori dello status quo arboreo: “Normali metodi di gestione del bosco, come la ceduazione, che rimuove la parte epigea delle piante arboree, sono state progressivamente vietate nelle aree a vincolo paesaggistico, nonostante si tratti di forme di governo forestale di tradizioni millenarie, che non distruggono il bosco, ma semplicemente rimuovono periodicamente la massa legnosa accumulata, che poi naturalmente si riforma, visto che non si estirpano le radici delle piante”.  Insomma basta lamenti inutili, e soprattutto basta con il mito del ritorno alla natura. Troppi danni fatti da una “pseudo-naturalità che non risponde nemmeno ai dettati del codice dei Beni culturali”. Poveri alberi insomma: chi ne vuole piantare troppi, chi ne vuole tagliare un po’. E nella Sherwood ambientalista mondiale volano frecce: spesso avvelenate.

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