Il Foglio Weekend

Palazzine d'estate

Michele Masneri e Manuel Orazi

Snobbate dagli architetti, amate da chi ci abita, sono il fondale della commedia all’italiana. E poi c’è il vituperato palazzinaro

Cosa c’è di meglio, per consolarsi della caldazza e dello spleen di fine estate, che ciondolare tra quartieri assolati di Roma per rimirare loro, le vere protagoniste della città, le palazzine? Mentre negozi e ristoranti sono chiusi e spuntano commoventi parcheggi, basta scivolare giù verso viale Parioli, o lasciarsi rotolare dolcemente lungo via Aldrovandi, dove terminava i suoi giorni Dino Risi, non a caso autore dell’inno alla Roma ferragostana, “Il sorpasso”. Perdersi tra le boscaglie delle siepi mai curate dal Servizio Giardini e rimirare loro. Ognuna una storia, ognuna un pezzo di malinconia. Protagoniste del Novecento (ma soprattutto dell’Ottocento): le palazzine. 

In principio più che la palazzina era il villino: che nella Belle Époque contrassegnava il paesaggio urbano di tutte le grandi città italiane. Fu lì che lo stile floreale, il liberty, attecchì, prima a Torino e a Palermo, poi ovunque. Provvisto di un piano terra e due altri piani, di solito il villino presenta un elemento disequilibrante ovvero una torretta che può essere studio, salottino, specola o terrazzino, il tutto circondato dal giardino o giardinetto. Marcello Piacentini, principe della professione e figlio d’arte, ne progettò diversi (tra cui il Villino Allegri al quartiere delle Vittorie, angolare, oggi molto fotografato) . Altro grande villinista era, come si sa, il papà di Moravia. Carlo Pincherle, ingegnere e architetto, era uno specialista del genere. Suoi quelli di via Piemonte, via Pinciana, via dei Gracchi. Anche il villino in via Sicilia, che è stata la sede della casa editrice Mondadori, e quindi della rivista Nuovi Argomenti (fondata da Moravia e Alberto Carocci nel 1953) è un suo progetto, come anche sua è la palazzina in via Po, sede storica dell’Espresso (cui Moravia collaborò come critico cinematografico). 

Peccato che il primo romanzo del figlio è dedicato al villone, non al villino. Nel 1925, a diciotto anni, Alberto Moravia comincia a scrivere Gli indifferenti, il romanzo borghese-antiborghese ambientato in salotto, in sala da pranzo, in camera da letto, insomma solo negli interni di una villa che lo scrittore romano costretto a letto dalla tubercolosi poteva vedere di fronte, Villa Levi progettata da Clemente Busiri Vici, dinastia di architetti che disegnarono la capitale (è morto da qualche giorno Saverio Busiri Vici, suo figlio, patron di un brutalismo romano, per quanto si possa essere brutali, a Roma). Villa Levi ha una storia mica male: costruita da un senatore torinese ebreo, Isaia Levi, inventore della penna Aurora, che la donò (la villa, non la penna) al Duce (che non la volle) e infine la dette al Vaticano in ringraziamento per la protezione ricevuta durante la guerra, oggi si chiama Villa Giorgina ed è la nunziatura apostolica presso l’Italia. Era stata scartata da Mussolini per la rumorosa vicinanza del tram di via Po (come del resto il gran potente di Roma Franco Caltagirone oggi molto infastidito dai tram fa scrivere al suo Messaggero quasi ogni giorno a tutta pagina allarmati reportage dai quartieri romani, dove le popolazioni si lamentano non della monnezza, non delle scale mobili che crollano, ma dei tram! Che non le – o lo – fanno dormire).  

Il villino oggi è tornato di grande moda. Tutti vogliono il villino, abbandonando attici e superattici. Sarà il riflusso, sarà il Covid, ma è il nuovo oggetto del desiderio. Anche Ginevra Elkann che capisce tutto ha abbandonato gli attici e fatto una scelta di campo: un bel cielo-terra, villino, in Prati. E Paolo Sorrentino sta lasciando Piazza Vittorio gentrificanda e si è fatto il villino ai Parioli! C’è una moda del villino, e qualcuno sostiene che tra le varie temperie abitative in corso, si registri una fuga dai piani alti. Un tempo agli attici ci stava la servitù, perché si schiattava di fatica e caldo. Poi, con l’invenzione degli ascensori e delle arie condizionate, i ricchi si accomodarono sopra. Adesso, pare che si scenda di nuovo, per andarsene proprio. Non si vuole nessuno intorno. Un nuovo riflusso? Sudamericanizzazione della città? Comunque, se i poveri fuggono nei borghi dello smart working a 1 euro, i ricchi puntano al compound urbano.  

A volte si confonde tra palazzina e villino, ma son due cose molto diverse, bisogna fare attenzione. La palazzina vien dopo, la palazzina è piccolo-borghese dove il villino è alto, e a volte aristocratico. Piacentini fece i villini in gioventù ma quando la sua carriera decollerà fra le due guerre non si abbasserà mai a progettare palazzine, occupandosi solo di piazze, monumenti, grattacieli (a differenza di molti altri). Benedetto Croce nel 1927 volle distinguere i vari significati del termine “borghese” in giuridico, economico, storico e, soprattutto, sociale: “quel che non è né troppo alto, né troppo basso, il ‘mediocre’ nel sentire, nel costume, nel pensare”. Insomma, la palazzina: se il villino era il simbolo dell’alta borghesia, con monoproprietario e torretta, la palazzina esplode con l’esplosione della middle class che popola la nuova capitale. La palazzina ospita schiere di impiegati, ministeriali, professionisti e commercianti con grande soddisfazione e discrezione. La palazzina ha un business model peculiare: quello della cooperativa, che riesce più facilmente a ottenere un finanziamento a tasso agevolato dalle banche. Ci si mette insieme in nove, e finita la costruzione la cooperativa è bella che sciolta. Nove perché in otto ottenevano un appartamento (due per ogni piano) mentre uno solo prendeva l’attico provvisto di ampia terrazza (ma un po’ ritratto rispetto alla strada). “Certi accorgimenti, come i ritiri imposti alle facciate e l’arretramento dell’attico, tradiscono una sorta di cattiva coscienza, come di chi voglia minimizzare delle operazioni che considera già sbagliate”, scrive Paolo Portoghesi su Casabella nel ’76, in quello che è forse il primo articolo mai scritto sulla palazzina. Con la palazzina nasce pure la terrazza, terrazza romana come alternativa ai salotti milanesi. Se il villino fiorisce ovunque, la palazzina rimane infatti un topos molto romano, tipico della città orizzontale, città poco densa, città dove si riesce sempre a guardare il cielo. Oltretutto la palazzina nella sua taglia e nel suo giro d’affari limitato non fa gola ai grandi capitali, di certo i fondi del Qatar non punterebbero sulla palazzina a Milano. A Milano si fa il palazzone. 

Secondo Alfredo Passeri invece l’80 per cento dei romani abitano nelle palazzine: del resto a Roma esiste pure l’espressione “e tutta ’a palazzina tua”, corollario di varie invettive di moto a luogo che non risulta esistano altrove. La palazzina non è mai stata considerata un vero oggetto architettonico, mentre è un edificio pieno di comfort. Secondo Portoghesi, la palazzina è come un sonetto: “struttura rigida e prescrittiva, solo tre strofe, che permettono infinite varianti e dunque la più ampia libertà”. Ai fatali Monti Parioli si può vedere la fatale trasformazione da villino a palazzina: ad esempio in via Antonelli che scende dal trivio di Piazza Pitagora verso la Basilica del Sacro Cuore Immacolato di Maria (1936) di Armando Brasini, il nostro Albert Speer, l’immaginifico creatore di tante architetture svolazzanti un po’ Fantaghirò, tra cui la villa Brasini e il Ponte Flaminio con le sue torce che ardono come fari di Alessandria. Ma su, in alto, a ’li Monti Parioli, nella posizione migliore, ci sono i villini poi, man mano che si scende, questi si allargano sempre di più e diventano palazzine. Fra le prime notevoli ce ne sono due entrambe realizzate su un lungotevere: la palazzina Nebbiosi (1928-32) di Giuseppe Capponi, aedo del barocchetto morto prematuramente, e la Furmanik (1935-40) di Mario De Renzi e Giorgio Calza Bini dove si nota già l’arrivo del razionalismo d’oltralpe anche negli interni. Sono gli anni del cinema dei telefoni bianchi di Mario Camerini, Alessandro Blasetti e Mario Mattoli, dove il ceto medio-alto viene rappresentato appunto attraverso l’uso di un telefono privato e di lusso in un interno, opposto a quello pubblico e nero che usavano tutti gli altri. 

 

Ad accompagnare i cambiamenti abitativi e urbanistici la Società Generale Immobiliare o semplicemente Immobiliare (o Sgi). Startup nata con l’Unità d’Italia, l’Immobiliare è protagonista del sacco urbanistico di Roma capitale, e costruisce ovunque, con una storia del mattone che accompagna il paese fino agli anni Sessanta (con Sindona, e poi le déluge). Dai villini dei Parioli a Washington, dove fa pure il complesso del Watergate su progetto di Luigi Moretti, forse il maestro assoluto del genere “palazzina moderna”.  

 

A viale Bruno Buozzi, ecco il suo “Girasole”, con basamento da simil-rovina e la facciata che sembra spezzata in due, tanto amata da Robert Venturi quanto detestata dal giovane Manfredo Tafuri che la liquidò come espressione di un “razionalismo borghese”. Vi abitava, tra gli altri, Totò, che si aggirava per i Parioli con una Cadillac con le tendine automatiche e in casa aveva “sette telefoni gestiti da un centralino”, recitano le cronache dell’epoca (non si sa se bianchi o neri). E tutto un arredo Sette-Ottocento poco in linea col modernismo dello stabile. Un po’ più su oggi sta Mario Draghi, in una bella palazzina. “Immagine di felicità abitativa, miracoloso rapporto fra pubblico e privato con la possibilità concreta di identificare il proprio abitare, non come negli intensivi. La palazzina incarna l’idea di felicità borghese perciò è un’abitazione protesa verso il sole, come nei quadri metafisici assolati (il Girasole allude a questo), e si vede di più nel cinema che nella letteratura, dove prevale invece l’abitazione popolare di stampo pasoliniano”, sostenne Franco Purini (ma pure Pasolini stava in una palazzina, però all’Eur: a via Eufrate 9, in un quartiere tutto nuovo, che ha meno anni di lui: sarà, come previsto, “la casa della mia sepoltura”; palazzina borghese e “bene” accanto alla cupoletta dei Santi Pietro e Paolo, travertino razionalista).

 

Ma tornando indietro, frutto della madre di tutte le speculazioni della Società Generale Immobiliare fu la risistemazione del quartiere Ludovisi, coi principi Boncompagni Ludovisi che vendettero tutto, nel boom immobiliare seguito al trasferimento della capitale a Roma. Uno dei parchi più grandi della città, dissolto in una parcellizzazione che creò via Veneto e attirò le ire di D’Annunzio ed Émile Zola. Ma man mano che i prezzi salivano, i principi ricomprarono per rivendere ancora a prezzi più alti, poi i prezzi scesero (sempre la solita storia, da “Una poltrona per due” in giù), e rimasero in braghe di tela. Del colossale parco, rimane oggi l’ambasciata americana, e il villino Boncompagni Ludovisi, oggi museo (e il casino dell’Aurora, quello col Caravaggio: i Ludovisi oltre che per le lottizzazioni son famosi anche per le beghe di famiglia, così l’ultima principessa, che è texana, è stata sfrattata dai parenti, e il tutto è all’asta, e continua a scendere, e tra un po’ lo si può comprare anche mettendosi insieme tra amici). 

 

Se la palazzina è vituperata, il villino è rispettato, anche a sinistra. Quando si minaccia di buttarne giù qualcuno la popolazione romana, non proprio nota per la reattività, insorge. Come per il villino Naselli, demolito nel 2017 nel quartiere Coppedè a Roma con grandi proteste, nonostante non fosse proprio pregiatissimo, per essere sostituito da una palazzina moderna. La palazzina infatti la odiano tutti. Da sempre. La palazzina suscita odio di classe. Nel Dopoguerra gli architetti “de sinistra” si concentrano sull’intensivo, sui palazzoni, sulla committenza pubblica, sull’unità di vicinato (Ridolfi e Aymonino sono iscritti Pci; Quaroni, Zevi, Fiorentino sono vicini al Psi); il risultato sono quartieri popolari e populisti come il Tiburtino (e dal villino col tram passiamo a Fantozzi, e all’autobus al volo). La sordida palazzina borghese la chiamano “la palazza”. E però, cuore a sinistra e tecnigrafo a destra, ne progettano pure loro. Ridolfi ne fa a bizzeffe di palazze nelle vie Lusitania, Vulci, Marco Polo, De Rossi; Quaroni e Aymonino ne fanno una insieme in via Innocenzo X, la Tartaruga; persino Zevi ne fa una in via Pisanelli. Queste nuove palazzine come struttura hanno di solito grandi vetrate e angoli visuali per far entrare prepotentemente il paesaggio urbano e le rovine romane all’interno dell’abitazione, vedi quelle in via di Circo Massimo (Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti) oppure finestre a nastro corbuseriane rielaborate come nella palazzina che ospita l’ambasciata del principato di Monaco presso la S. Sede a largo Nicola Spinelli, di Ugo Luccichenti, fratello di Amedeo.

 

Spesso le palazzine romane hanno inserti che i vari instagram su “ingressi milanesi” e libri su cortili lombardi je fanno un baffo. Affreschi, mosaici, alto e bassorilievi anche di Capogrossi, Consagra, Corpora, Severini, risultato di un melting pot artistico ancora poco studiato. La palazzina è infatti frutto di un innesto speciale, quando le più moderne teorie architettoniche in arrivo dall’Europa e dagli Stati Uniti impattano sul genius loci romano; genera anche un gruppo di architetti-ingegneri che stanno fuori dalle grandi accademie o perché impresentabili come Moretti, fascistissimo che mai rinnegherà, o perché più legati al mercato e alla Dolce Vita, con tavoli sempre gaudenti al Caffè Rosati a piazza del Popolo: c’è anche il notevole Julio Lafuente, che fa la casa di re Umberto a Cascais e quella d’Urso a Conca dei Marini, e notevoli palazzine a Santa Marinella insieme con Monaco&Luccichenti. A proposito di re, si sa che l’architetto di Carlo d’Inghilterra, Léon Krier, è un gran patito di palazzine, e considera la Garbatella il miglior esempio d’urbanistica al mondo: “la palazzina è un genere perfetto e le più perfette sono a Roma”, sostiene. Anche se la Garbatella in teoria è città giardino, modello svizzero-tedesco, sono case precedenti e più piccole e più verdi. Come il quartiere Monte Sacro, dove viveva, nella sua bella palazzina, Ennio Flaiano. Giorgia Meloni, dopo la parentesi alla Garbatella, anche lei abita in una palazzina, però all’Eur-Torrino.

 

E la palazzina naturalmente è la grande quinta teatrale del cinema romano, cioè italiano. Nel finale di I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada (regista e architetto) si vedono piazza Jacini, Vigna Clara e uno scorcio della palazzina di Luigi Piccinato in via Archimede dove la protagonista Catherine Spaak si affaccia, quasi a suggerire che questo tipo di casa sia un ambiente protettivo ma anche un trampolino di lancio per la vita. E poi ovviamente Il sorpasso (1962), con Bruno Cortona-Gassman che parte dalla Balduina (via Rosso, largo Chiesa), tra le palazzine deserte, i negozi chiusi, le strade assolate. E poi Monica Vitti in L’eclisse (1962) di Antonioni, incomunicabilità tra le palazzine dell’Eur. E poi C’eravamo tanto amati (1974), di Scola, che vede in scena una figura centrale, quella del palazzinaro, il costruttore senza scrupoli che si arricchisce consumando suolo (e getta un’ombra su tutta la borghesia romana: dietro un po’ di soldi c’è sempre un palazzinaro). E chissà chi avrà mai coniato il dispregiativo architettonico? Secondo la Treccani, palazzinaro è “un tipo di imprenditore edile, spesso improvvisato, che a partire dagli anni 50 e 60 del Novecento, raggiunge rapidamente il successo economico grazie all’utilizzo di manodopera a basso costo, all’adozione di tipologie edilizie ad alta intensità abitativa e di tecnologie arretrate, spesso ricorrendo ad abusi, corruzione, violazione dei regolamenti edilizî e urbanistici”. Ammazza. Niente, sono tutti contro la palazzina. E del resto il palazzinaro “igonigo” della grande commedia all’italiana è rappresentato, uno per tutti, da Aldo Fabrizi, che fa Romolo Catenacci, costruttore arricchito fascistone (che però nel film tira su palazzi, non palazzine, ma che ce voi fa. Oggi comunque Romolo Catenacci scriverebbe libri autoprodotti di successo, e si lamenterebbe molto, è chiaro, del pensiero unico).