Foto LaPresse / Ted S. Warren 

In Svezia non basta dire un nome per rovinare carriere urlando al #MeToo

Mariarosa Mancuso

Il caso alla rovescia di Fredrik Virtanen raccontato sul New York Times dalla giornalista Jenny Nordberg. Un lungo articolo (con sorpresa finale)

Un lungo articolo (con sorpresa finale) sul New York Times racconta le differenze tra Svezia e Stati Uniti in materia di molestie sessuali, per quanto riguarda il “fare i nomi”. In Svezia i nomi non si pronunciano né scrivono, meno che mai sui social network. Se succede, la legge protegge la privacy, non si assiste a pubbliche diffamazioni che rovinano vita e carriera. Come negli Stati Uniti: anni sono passati, Louis C. K. va ancora in giro accompagnato dalla fama di esibizionista (e noi pensavamo stessero ai giardinetti con l’impermeabile, non che domandassero alle presunte vittime il permesso di sbottonarsi i pantaloni). Sale sul palco per lo spettacolo, e dietro di lui si illumina un’enorme scritta “sorry”.

 

La legge svedese punisce chi – come l’attrice e scrittrice Cissi Wallin – si scatta un selfie allo specchio e lo mette su Instagram nel 2017 con la scritta: “L’uomo di potere mediatico che mi ha drogata e violentata nel 2006 si chiama Fredrik Virtanen”. Undici anni dopo i fatti, “lo denuncio o non lo denuncio”, la spinta definitiva dopo aver pensato che la madre e la nonna erano state molestate senza denunciare. Quattro anni dopo, il presunto stupratore (che nega ogni addebito) non è stato condannato, ha perso però il lavoro da giornalista. La vittima è stata condannata per diffamazione.

 

Altri dodici presunti colpevoli di molestie hanno contrattaccato, non è un’eccezione – non meritano la gogna, secondo la legge svedese, neanche i criminali. I processi mediatici in Svezia non si fanno, non basta dire un nome per rovinare carriere, come è accaduto negli Stati Uniti. E un po’ anche in Italia: accuse, sospetti, gogna, e quasi nessuna denuncia in tribunale.

 

“The Case that Killed #MeToo in Sweden” (è il titolo dell’articolo) sfata il mito della Svezia femminista, 480 giorni di licenza di maternità e un sacco di padri che spingono i passeggini. Parlando di #MeToo, denuncia gli stretti criteri sul rispetto della privacy. Un gruppo Facebook aperto per raccogliere testimonianze sostiene che la maggior parte riguarda una quindicina di uomini, tutti ben conosciuti. Rese anonime, le denunce sono state usate in un dolente spettacolo di mani lunghe e approcci pesanti, andato in scena con molto successo di fronte alla famiglia reale. Le molestie tra gli accademici che assegnano il Nobel sono state sbrigate a parte.

  

Nel frattempo, la vittima ha scritto in un libro la sua versione dei fatti, il presunto colpevole pure (poi dicono che la gente perde il gusto per la lettura). Ed ecco il colpo di scena. La giornalista Jenny Nordberg che firma l’articolo – ospite, siamo nella sezione “guest essay” – rivela di aver avuto anche lei, tanti anni prima, uno spiacevole incontro con Mr. Virtanen. Era studentessa di giornalismo alla Columbia, lui insegnava in quelle aule, si erano incontrati la sera in un bar. Siccome scrive per il New York Times, fa il nome e indugia sui dettagli. Ne approfitta per denunciare la libertà di parola (sempre) negata alle donne. Come se fosse questo il punto.

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