Città ideale, Galleria Nazionale delle Marche, Urbino 

È sufficiente un piccolo virus per rendere la bellezza quasi indifferente

Sergio Belardinelli

La città ideale è quella segnata da caos e rumore

Poche sere fa, intorno alle otto, uno dei miei figli ha postato nella chat di famiglia una fotografia di piazza Navona completamente deserta. “Non c’è un cane”, diceva il suo messaggio. “Ecco la città ideale”, postava subito dopo l’altro mio figlio, alludendo al famoso quadro omonimo che si trova nella galleria del Palazzo Ducale di Urbino. L’allusione, rivolta polemicamente al sottoscritto, si riferiva a una nostra discussione avvenuta una trentina d’anni fa proprio davanti a quel quadro. 

  
Mio figlio aveva allora sette o otto anni ed era la prima volta che lo accompagnavo a visitare il Palazzo Ducale di Urbino. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che lagnarsi per questa odiosa costrizione che gli avevo imposto. Giunti davanti al quadro della città ideale, mentre cercavo in tutti i modi di catturare la sua attenzione, sbottò letteralmente: “Mi sono rotto, voglio uscire, non me ne frega niente della città ideale. Guarda lì, non c’è manco una persona!”. E da allora ci poniamo divertiti la stessa domanda: può dirsi “ideale” una città dove non ci sono gli uomini? Oppure, che è lo stesso, che senso ha una città senza i cittadini, la polis senza la politica? 

  
Quel quadro meraviglioso è troppo noto perché io mi sforzi di descriverlo. L’autore, peraltro ancora incerto – si parla di Luciano Laurana, ma anche di Piero della Francesca e Francesco di Giorgio Martini –, potrebbe essere lo stesso che ha dipinto le altre due città ideali, che si trovano rispettivamente a Baltimora e a Berlino: tre insuperabili rappresentazioni dell’utopia rinascimentale della città perfetta, la cui bellezza non viene certo scalfita dalle domande con le quali mi trastullo con i miei figli. Se però pensiamo che da sempre l’utopia interessa la polis ben al di là delle sue strutture architettoniche, ecco che la totale assenza degli uomini potrebbe anche legittimare qualche perplessità. A maggior ragione se consideriamo che, in tutti e tre i quadri di cui stiamo parlando, l’elemento che tiene insieme gli edifici della città o che, come nel quadro di Berlino, unisce la parte urbana al porto, è rappresentato dalla piazza: il luogo politico per eccellenza. Ma, di nuovo, che piazza è senza gli uomini? Come non pensare a una sorta di monito inintenzionale contro ogni forma di perfettismo e di costruttivismo politico? 

  
Sono convinto che nei quadri di cui stiamo parlando, la città è vuota per esaltarne ancora di più il carattere “ideale”, la bellezza delle sue forme, prefigurando magari forme di vita politica belle e giuste. Ma piazza Navona completamente deserta evoca altri pensieri. È talmente bella che, sì, può far pensare anche alla città ideale, ma in realtà essa fa pensare soprattutto al virus, alla pandemia, alla sospensione della vita (e della politica) cui siamo costretti da quasi un anno, diciamo pure al lato brutto dell’utopia: se per essere tale, la città ideale deve essere vuota, allora meglio l’imperfezione e il caos che regnano dove ci sono gli uomini. 

  
La bellezza salverà il mondo, si sente ripetere spesso. Ma non è vero, specialmente quando la frase viene estrapolata dal contesto religioso in cui la collocava Dostoevskij. Basta un virus e anche la bellezza diventa quasi indifferente. In quel vuoto illuminato da luci bianche e giallastre, la chiesa del Borromini e la fontana del Bernini evocano piuttosto una sorta di svuotamento metafisico. Persino Dio sembra essersene andato. Eppure, a guardar bene, quel vuoto potrebbe dischiudere anche qualcos’altro: i rumori e il caos dei giorni normali prima della pandemia, la calca dei turisti, uno spazio per le infinite opzioni di cui è fatta la nostra vita, una sorta di zona franca dove rifugiarsi, magari per sfuggire alle inutili guerre che spesso combattiamo.

 

Sorprendentemente è come se la “città ideale” ci riportasse alla realtà, rendendo più indulgenti i nostri modi di guardarla. L’idea di una piazza ridotta a una sorta di ristorante a cielo aperto per turisti beceri e ignoranti non sembra più neanche nostra, tanto ci appare insulsa e irreale. E così pensiamo al vigile urbano, impersonato da Alberto Sordi, che, finito a dirigere il traffico a Milano, celebrata in tutto il film come la sua città ideale, si ritrova a desiderare ardentemente il caos della sua Roma: “Ammazza che magone che c’ho!”. Speriamo davvero che passi questa pandemia e che ritorni al più presto la confusione di prima. 

  

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