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Minority report

Mettiamoci il cuore in pace, cambiare le parole non ci consegnerà un mondo migliore

Giovanni Maddalena

Una cattiva filosofia all’origine delle battaglie linguistiche

Non so se mi inquieta di più l’annuncio che la squadra di football americano dei Washington Redskins abbia deciso di rinunciare al nome (che vuol dire “pellerossa”) e al logo (un simpatico nativo americano con copricapo) o la partita a scacchi dove si fa cominciare il nero per non dare un vantaggio razzista al bianco.

  

Dopo la rinuncia ai cioccolatini “Moretti” (e perché la birra mantiene il suo nome?) e ai cosmetici “sbiancanti” attendiamo ora la riscrittura dell’Otello dove chiaramente il Moro viene ingannato per motivi razziali e, finalmente, per la gioia di una metà d’Italia, la revisione delle maglie bianconere, che non possono non far pensare a una distinzione segregante.

  

Tutto questo sembra solo far sorridere eppure sta accadendo. In fondo, se ne capisce la logica: con le parole tante volte ci si ferisce reciprocamente, soprattutto su temi sensibili; le parole e l’abitudine a pronunciarle fondano la nostra percezione e concezione della realtà; dunque, se cambiamo le parole, cambieranno progressivamente anche i modi di dire e di fare in modo da non ferirci più.

  

Il sorriso deriva dal fatto che tutti sappiamo che cambiare le parole non basterà e l’imbarazzo che provocherà a chi non è razzista, oltre alla rabbia ulteriore in chi lo è, fanno sì che l’impresa non valga la spesa.

  

Il motivo per cui non basterà, però, è l’aspetto più interessante. Le parole hanno senz’altro un grosso potere, ma una cattiva e debole impostazione filosofica – “nominalista” direbbe il grande Charles S. Peirce – lo ingigantisce spropositatamente sostenendo che il mondo e la nostra conoscenza di esso coincidano con il linguaggio. Se così stessero le cose, e così pensano i maestri filosofi dei proponenti dei vari cambiamenti, il ragionamento filerebbe. Solo che le cose non stanno così né nell’esperienza comune né in quella scientifica. Persone con mancanza di linguaggio, come avviene in certe malattie o con infanti molto piccoli, hanno comunque un mondo. Parti dell’universo macroscopiche o microscopiche sconosciute, che non hanno ancora un linguaggio per descriverle adeguatamente e alle volte neanche per nominarle, sono comunque reali. Alcuni fenomeni del mondo, come certe sfumature di sentimento e alcuni urti improvvisi e violenti, hanno una realtà anche se non hanno un linguaggio immediato per esprimersi. E alcuni linguaggi, come l’elfico di J.R.R. Tolkien, hanno un mondo di riferimento che non esiste. Insomma, la vicenda del reale e del linguaggio è più complicata della semplicistica versione per cui cambiare il linguaggio significa cambiare il mondo. La realtà è più vasta di ciò che vediamo, tocchiamo e sentiamo ma anche di ciò che riusciamo a dire così come sono più vaste del prevedibile alcune conseguenze reali delle nostre parole. “Ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia”, diceva Shakeaspeare, infinito creatore di mondi che speriamo mai bandiscano anche se non sono politicamente corretti. Non significa che non si debba battersi sulle parole e sulle filosofie, ma che la coincidenza non è totale e le parole derivano dal mondo più di quanto il mondo non derivi dalle parole. Le parole cambieranno insieme alla conoscenza vera e affettiva del mondo. E’ per questo che per cambiare le tante cose che non vanno, soprattutto la mancanza di rispetto per la dignità assoluta di ogni singolo essere umano, ci vorrà sempre l’imprevedibilità del cuore, inteso nel suo senso profondo ed ebraico di conoscenza, più che il determinismo delle leggi.

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