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cercarsi con il telefono acceso

La telecamera che ci portiamo dentro riduce l'amore a un prodotto d'intrattenimento

Simonetta Sciandivasci

L'automatismo di scegliere, fare, mostrare le nostre vite pensando a come verrebbero in foto. Trasformarle in auto gossip

Scegliamo, facciamo, mostriamo molte cose pensando a come verrebbero in foto, a quanto sarebbero condivisibili su Twitter, attraenti su Instagram, esaltanti su Tik Tok. E’ diventato un automatismo, un’abitudine, un’ossessione controllata. Ci formiamo compiacendo i social network, in simbiosi perfetta. Non tendiamo più al sapere (scusi, Aristotele, lei è passè): tendiamo al compiacere. Il gossip ha sempre contato su qualcosa di simile: la disposizione di noti e notabili a fare del proprio privato uno spettacolo ligio ai criteri dell’intrattenimento popolare.

  

Più che essere intrattenuto, però, il pubblico desidera ora compartecipare, co-agire. Per questa ragione, Kardashian ha chiesto a tutti di capire suo marito, che da giorni scrive scompostezze su di lei, i suoi figli, gli Stati Uniti, la schiavitù. Le stesse che ha detto durante il suo primo comizio (correrà alle presidenziali, pare), lunedì, quando è salito su un palco con addosso un giubbotto antiproiettile e ha strillato, pianto, promesso di dare un milione di dollari a ogni neomamma americana. “Come molti di voi sanno, Kanye ha un disturbo bipolare”, ha scritto Kardashian, spiegando quanto difficile sia convivere con la malattia mentale di un familiare, e di aver deciso di esporsi per chiedere al pubblico e ai media “compassione ed empatia”. Due anni fa, quando West scrisse che la folla non poteva impedirgli di amare Trump, e che “400 anni di schiavitù suonano come una scelta”, lei dichiarò che le opinioni sue e di suo marito sul presidente non convergevano, e poi andò alla Casa Bianca a discutere la riforma della giustizia penale insieme a Ivanka e Jared Kushner. Scelse di correggere, attraverso la sua, l’immagine di suo marito. Oggi, con il medesimo obiettivo, chiede sui social l’intervento del pubblico e dice: se vi metterete nei miei panni, insieme a me contribuirete a cambiare il modo in cui la società parla di malattia mentale e a impedire che se ne faccia chiacchiericcio. Anziché rassicurare il pubblico, KK gli affida un incarico. In questo modo, disintermedia il gossip.

  

Questa settimana, al processo di Johnny Depp contro il Sun, che lo ha definito un “picchiatore di mogli” (tenendo fede a quanto raccontava Amber Heard, sua ex coniuge), Vanessa Paradis e Winona Ryder avrebbero dovuto testimoniare in sua difesa, ma non si sono presentate: la pressione sul caso s’è fatta così forte che la loro reputazione rischia di venire compromessa. Per questo motivo, secondo il Guardian, la sentenza potrà cambiare il modo in cui i giornali, specie le riviste scandalistiche, si occupano di violenza domestica e disturbi psichici.

   

C’è un altro dettaglio: sia Depp sia sua moglie si sono filmati e fotografati mentre si facevano del male. Sapevano che sarebbero finiti in tribunale e che avrebbero avuto bisogno di prove? Forse. Sapevano anche che per spingere l’altro a dare il peggio di sé bastava inseguirlo con il telefono acceso.

  

Noi, imperterritamente novecenteschi, ci siamo domandati: si può finire così per amore? Sì, no, boh, chissenefrega: non è la domanda. Può la telecamera che ci portiamo dentro ridurre l’amore a un inferno irresistibile da guardare, un prodotto d’intrattenimento tanto perfetto?

  

Meghan Markle farà causa al Daily Mail per aver rovinato la sua relazione con suo padre, una relazione che sia lui sia lei hanno più raccontato, inventato, piegato alla nostra fame di trame, squallore, meschinità, che vissuto. E se anche nelle sue accuse non c’è ravvedimento personale, c’è la stessa esautorazione di Depp e Kardashian per quel raccontare la vita per viverla, nel quale ci sfiniamo tutti. Tornare a vivere per raccontarla sarebbe meglio, incapaci come siamo di tornare a viverla e basta.