(foto LaPresse)

Le ridicole accuse di razzismo e omofobia alla moda italiana

Giulio Meotti

I grandi atelier italiani hanno vestito tutti gli abiti della diversity e da anni impegnati in campagne di sensibilizzazione su questi temi. Non esiste settore commerciale più woke sul fronte dei diritti

Roma. Come disse una volta Coco Chanel, “per essere insostituibili bisogna essere sempre diversi”. Non è bastato che tutti i brand della moda italiana (che da soli valgono il 4 per cento del nostro pil) abbiano espresso solidarietà alla comunità afroamericana e a Black lives matter; o che Valentino in due post abbia preso posizione per il cambiamento o che Gucci abbia persino deciso di sospendere le attività negli Stati Uniti il 4 giugno per consentire ai dipendenti di trascorrere una “giornata di riflessione” (pagata) e onorare George Floyd. “Enough is enough”, recita il post di Donatella Versace. “It’s never enough”, avrebbe dovuto scrivere.

  

Non è bastato che i nostri brand fossero da anni impegnati in campagne di sensibilizzazione su questi temi o che non esista settore commerciale più woke sul fronte dei diritti. Che ad esempio Vogue Italia abbia dedicato numeri interi alle modelle di colore, “per stimolare un confronto globale sulla discriminazione”. O che Benetton abbia lanciato la pubblicità “Nudi come” contro il razzismo. O che la stilista Stella Jean abbia portato anche l’immigrazione in passerella alla settimana della moda a Milano. O che Gucci abbia promosso “Gucci Changemakers”, borse di studio a favore della comunità afroamericana. Prima l’accusa rivolta alla moda di “appropriazione culturale”: per inseguire melting pot, esotico e “diverso”, i brand avrebbero usato elementi di altre culture, trasformandoli in accessori di alta moda. Ora, sull’onda del Black lives matter, arriva l’attacco a tutti i grandi marchi italiani in nome della guerra al “privilegio bianco”. “Quanto è colpevole l’Italia nell’attuale crisi razziale della moda? Molto”, scriveva ieri il Guardian.

  

Numerosi articoli sui giornali americani prendono di mira la moda italiana, accusata di non fare lavorare abbastanza persone di colore. Quando ti dichiari woke non è facile essere all’altezza. Devi fare come L’Oréal, che ha deciso di eliminare dai prodotti le parole “bianco”, “sbiancante” e “chiaro”. Anche perché ora sulla Bbc Naomi Campbell, la regina delle passerelle, ha accusato un truccatore di Vogue Italia: “Quando arrivai allo studio, il truccatore mi disse: ‘Non sapevo fossi nera, non ho un fondotinta per te’. Così fu costretto a mescolare diversi fondotinta, ma il colore risultante fu un sacco di grigio. Quando la rivista uscì, ho pianto. Ci tenevo così tanto a essere in copertina, era Vogue Italia! Ma non volevo essere grigia”. Tanto basta per diventare un De Gobineau del fashion.

   

Alla moda italiana arrivano anche grottesche accuse di “omofobia” e “transfobia” (come da parte dell’icona queer Tommy Dorfman al gruppo Ferragamo), quando lo sanno tutti che quella della moda è la realtà commerciale e artistica più gay friendly al mondo. Anzi, trovare un etero ai vertici del fashion è quasi impossibile, tanto che si potrebbe parlare di “eterofobia”.

  

Eppure ce la stavano mettendo tutta per stare al passo con i tempi. A febbraio, le boutique di Prada a New York avevano ritirato i “Pradamalia”, pupazzetti da cinquecento dollari dalle sembianze di scimmia. Il brand ha stretto anche un accordo con la commissione Diritti umani di New York, autorità giudiziaria incaricata di sovrintendere alle leggi sui diritti che si applicano alle attività cittadine, per avviare una rieducazione interna e sottoporsi a un monitoraggio esterno per due anni sul razzismo. Il Wall Street Journal ha pubblicato un editoriale dal titolo “Prada e la nuova polizia della moda”.

  

Questo non è solo incredibilmente stupido, ma anche autoritario. E’ così che finiamo? Con enti governativi e commissioni per l’“inclusione” che dicono ai marchi della moda cosa possono e non possono vendere, cosa possono e non possono creare i loro designer, cosa possono o non possono esporre in vetrina, come a New York? Molti negozi del lusso nelle città americane sono stati attaccati durante la degenerazione delle proteste per George Floyd. Ci manca solo che gli attivisti chiedano ai brand della moda di considerare i saccheggi un’offerta alla nobile causa della “giustizia razziale”. Fra le boutique di Beverly Hills e Soho si marciava cantando “Eat the rich”. Siamo come dentro a un famoso film di Luis Buñuel: l’atmosfera è talmente surreale che quando un gregge di pecore attraversa la sala, nessuno ci trova niente di anormale.

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