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Comunicare la complessità è troppo difficile, meglio buttarla sull'apocalisse

Antonio Pascale

Spaventare tutti e confidare “nell’effetto-via Appia” per farsi ascoltare

Ci sarebbe un dilemma morale, uno di quelli a doppio corno. Diverse questioni sensibili vengono affrontate con la cosiddetta retorica dell’apocalisse, e cioè prospettando ad libitum uno scenario apocalittico. La dinamica assomiglia a quello che accadeva, anni addietro, sulla via Appia, nel tratto Santa Maria C.V./Caserta. Strada commerciale, tantissima concorrenza. La seppure elementare strategia di marketing, suggeriva e a ragion veduta, di richiamare il consumatore sia con insegne sempre più sfavillanti (certe tonalità di giallo canarino) sia con potenti advertising. Se uno vendeva statue religiose, e aveva necessità di opporsi al suo competitor, metteva in bella mostra una gigantesca statua di Gesù. A parte che non potevi sbagliarti ma un po’ la forma voluminosa ti attraeva: ti fidavi. Tuttavia, il concorrente, non domo, usava la stessa strategia e ingrandiva a sua volta la statua, magari al posto di Gesù metteva Padre Pio. L’altro rispondeva ed ecco un altro Gesù gigante e capite bene che lo scenario offerto al consumatore, oltre a trasformare quel luogo in una sorta di spazio monumentale, soffriva di gigantismo, rischiava di collassare da un momento all’altro.

  

L’effetto via Appia assomiglia alla retorica dell’apocalisse e porta al dilemma: da una parte devi farti ascoltare e per farlo è necessario spaventare o impressionare. Siamo troppo sensibili allo spavento, tanto è vero che, ci avvertono gli psicologi cognitivi, riteniamo vere le cose che maggiormente ricordiamo. Però quelle che ricordiamo di più, sono le cose che ci spaventano. Quindi se io vi chiedo quale animale ammazza più uomini nel corso di un anno e non so, avete visto “Lo Squalo” di Spielberg o un bel documentario di Nat Geo sui serpenti a sonagli, e la notte non c’avete dormito, risponderete alla domanda mettendo ai primi posti lo squalo o i serpenti. Sbagliato: sono le zanzare, ma anche le vacche non sono male come killer di umani (molti automobilisti le investono e ci rimangono).

   

Quindi l’effetto ricordo e suggestione è garantito, e tuttavia non solo quella cosa che riteniamo vera è sbagliata ma dall’altra parte, a forza di spavento, finisce che ci deprimiamo, perché i problemi, scenario cupo dopo scenario cupo, gigantismo dopo gigantismo (effetto via Appia) ci appaiono insormontabili. Tanto vale rinchiudersi in se stessi, e pensare a salvare il salvabile. Se la casa ha fiamme troppo alte, allora spegnerle non vale la pena. La retorica dell’apocalisse rischia dunque di allarmarci e nello stesso tempo di farci dimenticare l’allarme e sembra avere parentele con certe forme di sovranismo. Se qualcosa di grande incombe su di te (un potere forte, un interesse occulto, ecc.) tu ti fai piccolo, cerchi l’autenticità e pensi solo a te: prima le tue donne e i bambini.

  

Risultato? Invece di aprirsi alla collaborazione ci si chiude, ci si barrica nel tentativo di proteggersi dall’apocalisse. Nasce così una sorta di sfiducia nel genere umano, altro potere forte che ci libera dalla responsabilità individuale ma su cui, protetti dalle alte mura, possiamo lanciare narcisisticamente i nostri strali. Lo so, è un dilemma, la complessità richiede collaborazione e non è facile, ci vuole allenamento (il vantaggio consiste nel sottolineare il fascino estetico ed etico di certe sfumature). Però, dall’altra parte comunicare la complessità è estremamente arduo e magari non ti ascoltano, tanto vale buttarla in apocalisse, per il momento si vince facile, e poi di doman non c’è certezza, no?

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