Justin Timberlake, Kate Winslet e Juno Temple in una scena di “La ruota delle meraviglie” di Woody Allen

Amarti, che fatica!

Simonetta Sciandivasci

Eravamo infatuati dell’autarchia sentimentale, ma la smania ci ha fregato. Torneremo alla monogamia?

Quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole, la verità era che non gli piacevi abbastanza. Soffrivi, ti rassegnavi, dimenticavi, trovavi uno più bello. Adesso capita che gli piaci, e ti piace, lo ami, e ti ama, più ci stai bene, e meno vuoi starci assieme. Poliamore, scambismo, adulterio classico, niente: non servono a niente. Uscirne è impossibile. Perché il nostro caro angelo si ciba di radici e dorme nei cespugli sotto gli alberi – e soprattutto nei lettini a una piazza e mezza Ikea – e poi, schiavo non sarà mai. La malattia che abbiamo non è la noia: è la smania. E’ tutta colpa della fame che abbiamo.

   

“Silenzi per cena, conoscersi, lasciarsi le mani non è quello che ci spetta”, cantava Malika Ayane solo tre anni fa

Il matrimonio l’abbiamo preso a picconate, credendo che il problema fosse il vincolo. Le relazioni le abbiamo allargate, credendo che il problema fosse la monogamia. E a un certo punto ci è andata stretta anche la poligamia e abbiamo allargato pure quella: la rovina sono i legami, ci siamo detti, sciogliamoli! E abbiamo inventato il poliamore, che forse è un sentimento, ma non proprio una relazione. La smania, d’altronde, non tollera la relazione, mai e poi mai: è unilaterale, monologante, divide et impera (che sarebbe un atto di resilienza notevole, al tempo del condividi e comanda, se non fosse che la condivisione, come la facciamo noi, è una truffa).

  

Solo tre anni fa, noialtri in lasca età da nozze ci eravamo illusi che la descrizione perfetta di ciò che volevamo, dall’amore e in amore, l’avesse cantata Malika Ayane: “Silenzi per cena conoscersi lasciarsi le mani non è quello che ci spetta” e “Forse è già domani, e questo è solo un sogno e non è stato male se lo vuoi rimani e troveremo un senso a noi che non cambiamo più” – “Nostalgico presente”).

  

  

Era, quella canzone, la fotografia perfetta dell’evaporazione della coppia e del modo in cui ci illudevamo di poterla sostituire con l’attimo, pur consapevoli che il prezzo da pagare sarebbe stato alto e molto amaro: una nostalgia costante, presente. Quella canzone era la nostra ammissione di inadeguatezza (ti amo ma non intendo illanguidirmi cenando tutte le sere con te), ma pure un invito a un nuovo viaggio, una dichiarazione di disponibilità a sperimentare un nuovo modo di salvarci dall’amore per salvare l’amore. Perché una cosa è chiara e certa: di amore non abbiamo mai smesso di avere una voglia pazza, anche se siamo bizzosi, viziati, irresponsabili, incapaci di indietreggiare, inabili al sacrificio. Vogliamo, però, che l’amore sia solo piacere e al coronamento di questo desiderio indirizziamo sforzi titanici, sperimentazioni ridicole. E falliamo, miseramente falliamo.

   

L’amore o è un disastro o non è. O è scelta e rinuncia o non è. Spiace dirlo ma è così.

  

E la notizia è che, dopo averci girato intorno un milione di volte, ci stiamo preparando ad accettarlo. E ad ammettere che l’amore costa fatica, una fatica che non c’è modo di lenire e scontare, e che forse provare a sfangarla è persino più gravoso, doloroso, dispendioso, angoscioso.

  

Amarti m’affatica, mi svuota dentro. Non amarti, pure – forse persino di più. Amarti con altri, pure – peggio, molto peggio. Che io sia moglie, conoscente, dipendente, capo, amica, amante, sconosciuta. Finalmente ci siamo arrivati. A ruoli sciolti, o inesistenti, o allargati, o interscambiabili, non cambia niente e non s’allevia niente.

  

“La mia disgrazia è che mi annoio ad avere: mi piace volere. Non sono insoddisfatta dell’uomo che sto lasciando, ma della vita”

Il racconto perfetto della parabola della grande infatuazione per l’autarchia sentimentale e di come, dopo averla sperimentata, ci siamo resi conto che non è poi un granché, lo ha scritto Sophia Benoit su The Cut (nell’adorabile, tragicomica sezione “It’s complicated”). Inizia con lei che, seduta sul water , scorre Tinder e ci trova il ragazzo che sta frequentando, e siccome le viene un raptus di gelosia – a lei, diamine! Lei che quando l’ha baciato la prima volta s’è subito affrettata a specificare ehi, carino, guarda che questa è una cosa lieve e fresca e senza impegno e liberi tutti – decide che deve fare di lui il suo fidanzato. Propone al ragazzo di Tinder di mettere le paratie stagne al loro piccolo grande amore e lo rimprovera per non averlo fatto lui per primo ed essere rimasto pure iscritto a Tinder. Lui accetta, dopo averle fatto notare che non le ha chiesto l’esclusiva perché è stata lei a baciarlo dicendogli “niente di serio, per carità”, prima di farci l’amore, dentro una macchina Uber. La monogamia comincia e, come è sempre stato e sempre sarà, dopo i fasti delle prime settimane, dopo lo shopping casalingo e il rinnovo degli arredi e dei quadri e del palinsesto sessuale, prende ad annoiare entrambi, lei soprattutto, che quindi si maledice e si ricorda di quando diceva che mai e poi mai avrebbe voluto impacchettarsi in una coppia tradizionale. Fa le valigie e va via. Con quali conclusioni nella testa? Viva la libertà, viva il politutto? Non proprio. “Quando ero single ero infelice, preoccupata, terrorizzata e inquieta. L’insoddisfazione che provavo era la stessa che provo adesso, ma m’illudevo che la cotta successiva l’avrebbe sanata. La mia disgrazia è che mi annoio ad avere: mi piace volere. Non sono insoddisfatta dell’uomo che sto lasciando: sono insoddisfatta della vita”. E, soprattutto: “Spero che continueremo a praticare la monogamia, perché è questo: una pratica, e non una dieta che, per funzionare, necessita che non ci siano imbrogli”.

 

Non è niente di troppo diverso da quello che ci siamo sentite dire tutte dalle nostre nonne? Può darsi. Solo che il passaggio cruciale è che mentre prima sbuffavamo, quando nonna ci diceva che la smania non ci avrebbe portate da nessuna parte, se non a costo di tremendi sacrifici, e quando avevamo finito di sbuffare aggiungevamo che l’amore non faceva per noi, e le relazioni erano roba borghese e tediosa e fallimentare, e che in giro non c’erano brave persone che fossero meritevoli almeno di un nostro dito (uno qualsiasi, non per forza l’anulare), e tanto valeva invecchiare accanto a uno o più gatti, adesso cominciamo a chiederci se il problema non siamo solo e soltanto noi, e se non valga la pena risolverlo perché – scrive Benoit – “esistono persone per cui la monogamia vale la pena”.

 

Fuori dalla coppia, una volta che ce ne siamo sbarazzati, siamo più fragili o più forti? E, soprattutto, un mondo di scissi, separati, singolari (scoppiati?), è più fragile o più forte? Più o meno familista? Più o meno individualista? Più o meno collettivista?

 

“Mai come adesso il benessere emotivo della coppia è stato tanto rilevante per la sopravvivenza della famiglia. Prima il matrimonio era un’istituzione pragmatica, un contratto che dovevi siglare per sistemare la tua vita. Adesso, dal matrimonio e dalla coppia ci aspettiamo che appaghino il nostro bisogno di appartenenza, di compagnia (che prima ci fornivano le comunità) e di realizzazione personale. Continuiamo a volere di più, chiediamo a una sola persona ciò che un intero villaggio era solito offrirci”, ha detto al New Yorker Esther Perel, psicoterapeuta e studiosa della coppia e del matrimonio. L’intervista si chiama “L’amore non è uno stato di perenne entusiasmo”. Una delle ragioni per cui abbiamo sfasciato coppie, matrimoni, relazioni, prima ancora di ammalarci di smania, era esattamente l’idea che all’amore si potesse e si dovesse chiedere di essere sorprendente, romantico, fenomenale, affamato e folle. Che fosse una richiesta assurda lo abbiamo capito e metabolizzato con molta difficoltà. Poi, abbiamo preso a convincerci che per avere un amore romantico e fenomenale, dovessimo essere fenomenali e romantici e affamati e folli noi per primi, noi soltanto. E la coazione all’entusiasmo ci ha affaticati come un decennio di cene di Natale tutte le sere, tanto che forse (forse!) stiamo tornando al punto dal quale eravamo scappati: meglio la coppia, ammesso che uno sia capace di starci dentro. E’ una questione di capacità e non è per forza vero che l’instabilità ci fa saldi negli sradicamenti quotidiani.

 

Siamo stati sradicati da un modello di società in cui era la comunità che ci assegnava il ruolo da cui dipendeva la nostra identità

Ciò da cui siamo stati sradicati è il modello di società nel quale era la comunità che ci assegnava il ruolo dal quale dipendeva, in larga parte, la definizione della nostra identità: “Avevamo molte certezze, ma nessuna libertà. Ora, le regole sono state sostituite dalle scelte e non abbiamo idea di come gestire tutto questo”, dice Perel. Siamo disorientati, signori, non smarriti. Dubbiosi, non disamorati. Curiosi, non cinici. Siamo terrorizzati da noi stessi e dai nostri limiti, prima ancora che da quelli del prossimo. E’ anche per questo che l’altro cerchiamo di tenerlo al caldo, ma da lontano. Laddove prima sognavamo la famiglia Mulino Bianco, adesso sogniamo la LAT (living apart together), la relazione a distanza fisica, emotiva, d’impegno. Si va a letto in un albergo a metà strada dai rispettivi comuni di residenza, si pranza in stazione e si cena in autogrill, ci si incontra nel fine settimana, ci si sussurra che l’amore è eterno finché dura. Love will tear us apart? Neanche per sogno!

 

Temiamo la deflagrazione, sia perché ci amiamo più di prima (senza contare che morire per amore è démodé), sia perché sappiamo che non saremmo capaci di ricomporci. Siamo pappemolli facili al trauma, indeboliti dall’esposizione al passato, alle ferite, alla vergogna, alla vita pubblica a cui i social network ci costringono, facendo di noi slogan falsità ambulanti.

 

L’altro giorno il New York Times ci ha detto che abbiamo un nuovo guaio digitale di cui preoccuparci (ha titolato proprio così, “Another thing to worry about”): l’orbiting. E forse ne avrete già sentito parlare, tra ipocondriaci sentimentali le informazioni viaggiano veloci, molto più di quanto non facciano tra i desk del quotidiano più bello del mondo. In caso non siate dei paranoici, imparate: orbiting è quando il vostro ex riappare, quasi certamente senza motivo, sotto forma di notifica (un mipiace a un vostro status, un parteciperò allo stesso evento al quale parteciperete anche voi, una visualizzazione delle vostre storielle Instagram). E voi, naturalmente, schiavi della causalità come siete, reagite pensando che quella riapparizione sia l’inequivocabile segno di una fiamma che si riaccende, di un passato che vuole candidarsi al futuro, di un’araba fenice che risorge. Naturalmente non è quasi mai vero, ma voi state lì a illudervi e ad aspettare nuovi passi, e, probabilmente, in caso tardino ad arrivare, a farne voi.

 

La fine di un amore è diventata infinita, quadruplicando il male che fa. E contro di noi ci sono l’orbiting, il ghosting, le rubriche

Prima, ad attentare all’elaborazione del lutto sentimentale e all’accettazione della fine di un amore, c’erano la reperibilità dell’ex (e bastava avere il coraggio di cancellarlo su tutte le piattaforme e in rubrica) e il ghosting (lui che molla lei – o viceversa – bloccandole l’accesso su tutte le piattaforme online). Ora s’è aggiunto l’orbiting e la fine di un amore s’è allungata fino a diventare infinita, quadruplicando il male che fa: più ce ne accorgiamo, più siamo tentati di rifugiarci nelle vecchie categorie.

 

Amiamoci, amore, pur di non lasciarci, ché lasciarsi fa troppo male, sai che fatica, lasciarsi sì che ti svuota dentro e assomiglia al ridere nel pianto. Oppure non amiamoci affatto, non cominciamo nemmeno, amore, hai visto poi come ci si riduce, dài, è evidente che non conviene: massimo dispendio, minimo guadagno.

 

E chi lo sa che cosa decideremo di fare, sguarniti come siamo rimasti di protezioni e sostituzioni, ora che abbiamo ammesso che l’amore è un grande classico, quindi una tragedia irredimibile. E soprattutto che il solo modo per dividersi l’onere e il dolore che lo corredano, è accoppiarsi.

 

Un po’ ce la stiamo facendo sotto, e i giornali lanciano allarmi, e le scrittrici si ricredono, e i divorzisti guadagnano meno degli psicoterapeuti di coppia (perché non vogliamo rinunciare, vogliamo risolvere –- meglio: vogliamo pagare qualcuno che risolva al posto nostro, evitandoci la fatica) e le canzoni sono vintage e i The Giornalisti riempiono gli stadi perché copiano Luca Carboni, che cantava che le storie d’amore no, non finiscono mai – e i nostri smartphone sono nelle nostre tasche a dimostrarlo. Per ora scappiamo via dalla fatica, perché l’inferno sono gli altri, cioè tutti noi, presenti inclusi.

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