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Storia di Yasmina, pachistana, raccontata da lei medesima in una tesi di laurea

Cristina Giudici

Capire il dolore delle seconde generazioni e la frattura generazionale e valoriale tra genitori e figli

Milano. Riuscire a districarsi fra il peso delle tradizioni, l’oppressione religiosa e la costruzione della propria identità italiana all’interno di una delle comunità più arroccate come quella pakistana è faccenda maledettamente complicata. E anche urgente. Dopo l’omicidio di Sana Cheema, strangolata dal padre per essersi opposta a un matrimonio combinato, alcune giovani italo-pakistane hanno alzato la testa per raccontare la loro ribellione. Anche se si tratta ancora di una minoranza. Fra loro c’è anche Yasmina che, per esorcizzare la frattura generazionale che l’ha condotta a fuggire di casa, ha scritto una tesi di Antropologia. Ha 25 anni, vive a Milano ed è riuscita ad liberarsi dalla gabbia familiare, dal cugino a cui era stata promessa in sposa, ma è stata ostracizzata dalla sua comunità. E convive con la paura.

 

Nella sua tesi, discussa recentemente, dedicata alle migrazioni in Italia e alle seconde generazioni, ha narrato la sua storia affidandosi all’auto-etnografia per spiegare tutti i confini che ha dovuto attraversare. Affrontando le contraddizioni della sua doppia identità. Come spiega lei stessa nell’introduzione: “L’auto-etnografia può essere definita come auto-narrazione, il ricercatore analizza criticamente le situazioni e i contesti sociali in cui si trova e, interagendo con gli altri, diventa egli stesso oggetto della ricerca”. Yasmina descrive la difficoltà dell’etnografo, anche se è chiaro di cosa stia parlando quando definisce le difficoltà della sua indagine “zone di conflitti”, come se fosse stata in guerra e non in una metropoli italiana. “Un etnografo può condurre la sua ricerca in zone di conflitto, generatori di violenze considerati spazi devastati, luoghi in cui i diritti umani e ogni tipo di libertà sono negati”. Dopo la premessa, la tesi diventa una confessione esplicita. “Come Bronislaw Kaspar Malinowski, (padre dell’etnografia) che ha dato vita a un nuovo modo di scrivere, descrivo le reazioni, le sensazioni provate di fronte a una cultura che per metà mi appartiene ma a cui, in ogni caso, non riesco a conformarmi”, riflette Yasmina. “E’ dal periodo adolescenziale che ho intrapreso un viaggio personale, cercando di capire dove sia il lucchetto per poter chiudere e seppellire il bagaglio stracolmo di eventi traumatici del mio passato che mi hanno segnato profondamente. Voglio davvero seppellire tutto il bagaglio o tutto vive comunque nella mia testa?”, si chiede. La sua storia ruota intorno alla parola chiave del confine. Il confine che la sua famiglia ha varcato venendo in Italia; il confine fra le sue origini e la ricerca della propria identità e il confine trasformato in un muro con la figura paterna che ha visto radicalizzarsi. “Oltrepassare un confine diventa obbligatorio qualora diventa impossibile ottenere qualsiasi forma di libertà̀ nel luogo di nascita. ̀E’ capitato a me personalmente all’interno della mia società di appartenenza, sia nella società d’origine di mio padre”, ha osservato. “Questa delusione verso tutti ha implicato il mio allontanamento da mio padre”. Nel capitolo dedicato alle seconde generazioni, chiosa: “Le seconde generazioni sono composte da persone formatesi dietro i banchi di scuola occidentali, cresciuti in mezzo a una società multietnica, vivendo uno stile di vita completamente diverso da quello dei genitori. Essere figli di immigrati si traduce nella continua ricerca di identità, soprattutto quando ci si trova nella fase di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta”. E’ lei stessa che si descrive come una ragazza di origine musulmana che deve scontrarsi contro una comunità bigotta e ipocrita. Uno scontro che le ha provocato “una terribile inquietudine di vivere col fiato sul collo, portando con sé un macigno di conflitti, vincite e ricadute”. La tesi racconta la storia della sua famiglia, ma ruota intorno alla figura oppressiva del padre. “Il punto di incontro con mio padre è paragonabile al confine indo-pakistano”, ha scritto. “Fra me e lui scorre un canale ghiacciato che non riesco ad attraversare (…). Le sue parole e decisioni sono indiscutibili soprattutto da noi figli, ma spesso il colloquio e il confronto è alla base di una famiglia che oltre al benessere economico cerca quello più importante: il benessere affettivo (…). Spesso mi sento come un’impiegata di famiglia: vivere la tua vita svolgendo i doveri che ti vengono imposti (…) e tutto nasce e muore lì. Spesso si avverte quella mancata carezza, ma non una carezza materiale perché di quelle se ne ricevono tante spesso nel corso della vita, anche se spesso fredde e prive di significato, ma si avverte la mancanza di una carezza che possa esprimere un semplice “ci sono io, puoi parlare con me. Ciò forse è dovuto anche alla forma mentis, al fatto che un genitore forse secondo lui non deve concedere tanta clemenza, altrimenti il figlio non lo rispetta, altrimenti il figlio devia dai suoi insegnamenti”.

 

In queste riflessioni, persino troppo esplicite, si trova tutto il dolore della frattura generazionale e valoriale che prova a superare attraverso la narrazione: “Noi, seconde generazioni, non riusciamo a esprimerci. La nostra opinione, il nostro volere non vale a nulla”. Ribellarsi non si può, si va contro i principi della cultura, si traduce nell’essere irrispettosi verso i nostri avi, zii e genitori”. Ci mette tutto in questa tesi, Yasmine, persino la rabbia, come fosse un testo terapeutico e non universitario. “Avvertire la mancanza di ossigeno nei polmoni del libero arbitrio e della libertà di pensiero porta a uno stato di morte clinica, ci si sente arrabbiati e vuoti dentro. La rabbia, la collera in corpo da sbattere tutto contro un muro, urlare più che mai ed essere per quell’istante l’incredibile Hulk, per quanto avesse ragione la giornalista americana Joan Lunden, ‘trattenere la rabbia, il risentimento e le offese ti provoca solo muscoli tesi, un mal di testa e una mascella dolente causata dal digrignare dei denti’”. Come si sente lei che è stata l’unica della sua famiglia a ribellarsi e a restare sola. Nella tesi usa spesso il termine “vecchie generazioni”. Vecchie generazioni, scrive Yasmina, “composte da uomini che dominano e donne che eseguono; padri che vogliono prevalere sulle figlie, le quali con tacito consenso e allegra costrizione si trasformano in ‘fate in nero’ costrette a esaudire ogni desiderio dettato dall’insieme degli usi e costumi della propria cultura. Vecchie generazioni che forse hanno cucito nel cuore la propria categoria, pretendendo che la categoria delle nuove generazioni, figli di immigrati, splenda di luce riflessa”. Parole dure e commoventi che spiegano bene cosa accade all’interno delle famiglie pakistane, anche quelle istruite, ma che temono ogni contaminazione con i valori occidentali. Yasmina non teme per la sua vita, ma ammette di stare sempre in guardia quando incrocia una famiglia pakistana che può conoscere suo padre. E descrive così le seconde generazioni: “Persone che si trovano a fronteggiare un sole cocente durante un diluvio universale”. Conclude la sua tesi: “Estraniandomi dallo scenario e guardando il tutto dall’alto, con un occhio critico, posso concludere affermando che purtroppo come aveva ben capito Isaac Newton ‘gli uomini costruiscono troppi muri e mai abbastanza ponti’”. Yasmina racconta in modo singolare, la sua tesi universitaria è una testimonianza preziosa. Nei ringraziamenti finali ha citato la famiglia che le ha permesso di studiare, e se stessa, “dimostrando la mia forza innata, nonostante tutto”. Davanti a questo testo, che abbiamo sfogliato e riportato in modo che Yasmina non possa essere riconoscibile, si coglie al volo che il grido di aiuto è sottinteso.

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