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Carcere e scuola

Se l'educazione affettiva diventa uno strumento per sorvegliare e punire

Antonio Gurrado

Leggendo "Sorvegliare e punire" di Foucault si scopre che il modello originario della scuola resta sempre la Rasphuis di Amsterdam, il più antico carcere moderno. La scuola intende essere "un microcosmo di una società perfetta, in cui gli individui sono isolati nell'esistenza morale"

Una curiosa illusione ottica riguardo alla scuola ci ha indotti a credere che il campo sia diviso fra una fazione che ne ha una concezione intrinsecamente conservatrice (per intenderci, i fautori delle bocciature, del latino alle medie, del voto in condotta e della requisizione dei telefonini) e un’altra che le attribuisce invece un ruolo progressivo, grazie alla pratica dell’educazione civica, affettiva, sessuale e quant’altro possa garantire la coltivazione di una futura società migliore dell’odierna. In realtà, di là da qualche distinzione di facciata, le due fazioni coincidono. Per scoprirlo non c’è bisogno di immergersi in astrusi e spesso pseudoscientifici saggi di didattica o di pedagogia, ma basta rileggere – a mezzo secolo dalla pubblicazione, se vi interessano gli anniversari: 1975 l’edizione Gallimard, 1976 l’edizione Einaudi – “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault.

 

Si scopre così che il modello originario della scuola resta sempre e comunque la Rasphuis di Amsterdam, il più antico carcere moderno (risale al 1596), non a caso destinato ai giovani malfattori. L’istituto funzionava secondo tre principii che sono rimasti come pilastri del sistema dell’istruzione: l’impiego dei detenuti in un lavoro scandito da un orario; l’inflizione di pene proporzionali alla valutazione della loro condotta; una costante esortazione spirituale volta ad attirare verso il bene e a distogliere dal male. La sintesi di questi tre aspetti sta nel termine “disciplina”, cui Foucault aveva dedicato un’intera sezione del saggio. La disciplina è un “metodo di apprendistato che permette agli individui di integrarsi alle esigenze generali”. Consiste anzitutto nella ripartizione degli individui nello spazio, secondo “clausura” (dalla scuola non si può uscire a piacimento) e “ubicazione funzionale” (pensate alle patetiche mappe che stabiliscono i compagni di banco). Quindi nell’impiego del tempo secondo una scansione capillare. Se vi sembra ridicolo che Foucault citasse una scuola elementare che scandiva la giornata dei bambini in blocchi da quattro minuti, pensate che oggi le scuole stabiliscono più o meno altrettanti minuti di tolleranza per gli ingressi in ritardo, e il registro elettronico esige che ne venga segnato il minuto esatto; coi miei occhi ho visto una nota che denunciava come un alunno fosse stato in bagno dalle 10:50 alle 11:01.

 

Il fulcro della disciplina è dato tuttavia dalla combinazione fra “articolazione corpo-oggetto” e “utilizzazione esaustiva”. Qui si fondono le due fazioni apparentemente opposte. L’utilizzazione esaustiva è l’insieme di stratagemmi atti a impedire l’ozio, in cui rientra a pieno titolo, per esempio, il bando del telefonino, ma anche il divieto di andare in bagno durante la prima ora di lezioni o simili brocardi nei regolamenti scolastici. L’articolazione corpo-oggetto consiste invece nell’insegnamento dell’utilizzo di strumenti, attraverso una tecnica – l’esercizio – in cui all’individuo vengono imposti compiti uniformi e ripetitivi. L’educazione civica nella versione roussoviana escogitata qualche anno fa, così come l’educazione affettiva/sentimentale/sessuale che dir si voglia, si fonda sulla convinzione che, a furia di inculcare principii etici negli alunni per trentatré ore all’anno, si otterranno cittadini migliori: è la pratica di una religione civile cui si attinge attraverso una ritualità da interiorizzare per mezzo di automatismi.

 

Il povero Foucault è rimasto inascoltato, se ben cinquant’anni fa rimarcava come proprio questo fosse il problema della pedagogia: “Specializzando il tempo di formazione e distaccandolo dal tempo adulto, predisponendo differenti stadi separati da prove graduate, determinando programmi da svolgersi secondo difficoltà crescente, qualificando gli individui secondo il modo in cui hanno percorso queste serie”, viene istituito un “tempo disciplinare” volto a “fabbricare gli individui”. Sotto questo aspetto, il dibattito su come punire le bestioline che hanno vergato la lista degli stupri in un liceo romano, o quelle che filmano i compagni mentre rovesciano il cestino della carta straccia in testa ai prof, o quelle che si estraniano dalle lezioni per dedicarsi al brainrot da scrolling, è identico al dibattito sulla necessità e sull’urgenza di istituire a scuola un’ora di – inserire di volta in volta la materia che si presuppone serva a sopperire a un’emergenza sociale, dalla violenza sulle donne agli omicidi stradali, dall’intelligenza artificiale al cambiamento climatico.

 

All’interno di questo sistema disciplinare, spiegava Foucault, funziona “un piccolo meccanismo penale”, fatto non solo di castighi ma anche di ricompense, secondo uno schema indipendente rispetto al mondo reale, allo scopo di stabilire una divisione binaria (buono/cattivo) di forte valore coercitivo. Ciò esige il controllo da parte di un potere che si faccia arbitro dell’etica; che proibisca i telefonini o insegni a non far sciogliere i ghiacciai, la scuola si configura come moderno Panopticon, quell’istituto di contenzione impostato sul controllo simultaneo che Jeremy Bentham riteneva capace di “riformare la morale, preservare la salute, rinvigorire il lavoro, diffondere l’istruzione”.

 

Il salto verso l’educazione etica si verifica ogni volta che si chiede alla disciplina “di giocare un ruolo positivo, facendo aumentare la possibile utilità degli individui”, pur sostituendo al vecchio principio violento della rappresaglia quello del profitto conseguito per blandizie. Non è un caso, dunque, se la scuola somiglia ancora alla vecchia Rasphuis: intende infatti essere “un microcosmo di una società perfetta, in cui gli individui sono isolati nell’esistenza morale” secondo una scansione che prevede un po’ di intimidazione, un po’ di lavoro, un po’ di moralizzazione, un po’ di vita comunitaria; un “luogo di formazione di un sapere clinico”, a mo’ di quelle prigioni ottocentesche in cui era proibita ogni lettura, se non quella di libri di morale. Tanto l’eccesso disciplinare, rimproverato dalle frange estreme al ministero, quanto gli slanci ottimistici dei fautori dell’educazione civica o affettiva (secondo la pia speranza che l’etica sia insegnabile) hanno lo stesso obiettivo: “Rendere naturale e legittimo il potere di punire, cancellare ciò che può esservi di esorbitante nell’esercizio del castigo”. Un castigo che, come voleva Mably, punisca l’anima e non il corpo; un castigo che vuole obbligare gli alunni a credere nei valori fondamentali, dimenticando che uno di essi è la libertà.