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La scuola di vita

No all'educazione sentimentale, sì alla mediazione dei saperi disciplinari e dei bravi insegnanti

Claudio Giunta

È chiaro che la scuola deve anche tenere conto delle tempeste emotive che scuotono la vita degli adolescenti, oggi probabilmente più di ieri. Ma deve farlo con gli strumenti che le sono propri, non con una batteria di velleitarie “educazioni” concepite come antidoti ai mali dell’esistenza

Una delle cose che non smettono di sorprendere è questa: mentre mezzo secolo fa i progressisti pensavano per lo più che la scuola fosse non solo inutile ma dannosa (Paul Goodman: “Sarebbe meglio stornare una bella quota dai fondi riservati all’istruzione per offrire ai giovani un accesso diretto al mondo reale”), oggi i progressisti pensano per lo più che la scuola sia la medicina per tutte le malattie.

 

Fatto sorprendente, ma che forse può essere spiegato nel modo seguente: mezzo secolo fa la scuola dell’obbligo era vista dai progressisti soprattutto come scuola di conformismo e adesione ai falsi valori del mondo, mentre oggi è vista soprattutto come luogo di resistenza e reazione nei confronti di quei falsi valori in nome di valori più alti e veri, da assorbire – tra le mura scolastiche – parte attraverso l’acculturazione e parte attraverso una socializzazione più umana di quella che passa attraverso la comunità dei pari, o i media, o i social network. Se tale possa o debba essere una scuola, diciamo, aggiornata ai tempi; e se questa educazione al non conformismo non rischi di risolversi in un conformismo di diversa natura, è una questione su cui si potrà riflettere un’altra volta.

 

Resta l’alternativa: distruggere la scuola, come suonava il titolo (tradotto) di un saggio di Ivan Illich oppure al contrario operare perché la scuola intervenga in ogni aspetto della formazione dell’individuo? Si tratta, mi pare, di un’alternativa pertinente, nella discussione che si è sviluppata intorno all’educazione affettiva/sessuale, e più largamente intorno al ruolo che l’educazione delle emozioni dovrebbe avere nell’istruzione scolastica. E qui mi pare che non sia questione di conservazione o progresso ma di quale e quanta debba essere appunto l’istruzione che deleghiamo a quella agenzia specializzata, per lo più statale, che è la scuola.

 

Ora, quelli come me (che non chiamerei dunque né progressisti né conservatori, né liberali né dirigisti: “quelli come me” è una definizione più che sufficiente) pensano che la scuola non debba insegnare alle persone a stare al mondo. Ovvero: che non debba farlo direttamente. In primo luogo perché le lezioni sulla vita impartite da un maestro o da una maestra finiscono inevitabilmente per imporsi con l’autorità del catechismo, e – scalfendo soltanto la superficie della coscienza – sortiscono altrettanto spesso l’effetto opposto a quello sperato. In secondo luogo perché la ricetta su come bisogna stare al mondo (come relazionarsi con gli altri, come amare, come vivere la propria vita sessuale) non la posseggono né i laureati in Lettere o Filosofia o Fisica, né i laureati in Psicologia. In terzo luogo perché esistono sfere dell’esistenza nelle quali la scuola – la suddetta agenzia specializzata per lo più statale – deve entrare con grande circospezione, ovvero attraverso le mediazioni che la cultura offre a coloro che la padroneggiano.

 

Mediazione è la parola cui quelli come me tengono particolarmente. Non si tratta di liquidare la questione dicendo che gli studenti devono studiare matematica e inglese e latino e poi le emozioni e i sentimenti li impareranno dalla vita. E’ chiaro che la scuola deve anche tenere conto delle tempeste emotive che scuotono la vita degli adolescenti, oggi probabilmente più di ieri. Ma deve farlo con gli strumenti che le sono propri, cioè innanzitutto con i saperi disciplinari e l’esperienza e l’intelligenza degli insegnanti, non con una batteria di velleitarie “educazioni” concepite come antidoti ai mali dell’esistenza.

 

Quindi no, non sarei favorevole all’ora di educazione sentimentale o affettiva. Non credo ci sia spazio, nel tempo-scuola, per innesti di questo genere, che non potrebbero non andare a scapito delle discipline curricolari, già rosicchiate da mille attività extra o para-scolastiche. Non credo che si troverebbero figure professionali adatte al compito, o pochissime, e si finirebbe per lasciare il campo ai dilettanti e ai fanatici. Mentre sono favorevolissimo ai mediatori e alle mediazioni: cioè a insegnanti colti e umanamente risolti, e perciò capaci di aiutare gli studenti negli anni della crescita; e all’assimilazione di quel “saper vivere” che, soprattutto nell’età scolare, avviene attraverso il contatto con l’arte. E poi certo, libero cioè facilitato accesso alla consulenza in materia di psicologia e sessualità – ma da parte di pochi verificati esperti, e a latere della normale attività scolastica.

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