intervista

Uno zaino di riforme per la scuola del merito. Parla il ministro Valditara

Maurizio Crippa

Non solo cellulari: l’importanza delle regole, le valutazioni, la nuova maturità. Le virtù di Agenda Sud. Le risorse e il coinvolgimento dei privati. “E c’è una scuola italiana che è di grande valore”. Chiacchierata con il ministro dell’Istruzione

Tre anni al timone della scuola italiana con la bussola del “merito”, parola inizialmente guardata con sospetto come fosse un sicuro indizio di ritorno al passato, più che altro dalla politica d’opposizione e sindacale. Ma nella scuola si erano sentiti anche tanti “era l’ora”. Il nuovo anno scolastico del ministro Giuseppe Valditara inizia con uno zaino di riforme, provvedimenti e aggiustamenti che come sempre, nella poca attenzione che contraddistingue il nostro dibattito sulla scuola, diventano notizie superficiali: lo stop ai cellulari, i consigli sull’abbigliamento. Valditara si rammarica, quando alla scuola si guarda in modo banale, vuole spiegare che in tutti i passi del suo ministero ci sono obiettivi coerenti. Però vorremmo partire, signor ministro, da uno spunto di cronaca: la storia tragica di Paolo, il ragazzino che si è suicidato travolto da un clima di bullismo. Lei ha subito chiamato i genitori, ha chiesto chiarezza alla scuola. Ma c’è forse una riflessione che si può fare: in molti hanno rilanciato la consueta accusa sulle “leggi che mancano” e lei ha giustamente ricordato che la legge c’è, la 70/24 dello scorso anno, “Disposizioni e delega al governo in materia di prevenzione e contrasto del bullismo e cyberbullismo”. Non bastano le leggi, bisogna riconoscere che c’è un problema più profondo, un tema di rispetto per l’altro, che manca, e bisogna ripartire dalla famiglia, dalla società. “E’ chiaro che i ragazzi assorbono anche i comportamenti degli adulti, quindi serve responsabilità innanzitutto da parte nostra; poi il ruolo dei social ormai è noto, ci sono fior di ricerche: stimola aggressività, volgarità, stimola l’odio”, risponde il ministro.

 

 Valditara prova una chiave di lettura: “D’altra parte da noi non c’è stata una riflessione culturale che abbia valorizzato ad esempio il concetto di ‘confini’, come affrontato molto bene da Frank Furedi: non si tratta soltanto di confini fra stati, di cui oggi si parla molto, ma anche dei ‘confini’ del nostro io, cioè i limiti dei nostri comportamenti, delle nostre libertà nei confronti degli altri. C’è anzi una cultura diffusa, sostenuta da molti intellettuali, che ha aiutato a slatentizzare qualsiasi nostra pulsione, quindi a trasformare ogni desiderio in un diritto. Abbiamo assistito a una iperfetazione dei diritti e a una marginalizzazione  dei doveri. E’ chiaro che se hai questo mix esplosivo, la risposta non può essere soltanto una questione di più leggi”.


Forse qualcosa sta cambiando. Tre anni fa l’idea di importare il “merito” nella scuola fu accusata di autoritarismo o peggio. Oggi sembra che si inizi ad accettarla. “Fortunatamente. Mi fa piacere ad esempio che un intellettuale non certo di destra come Massimo Recalcati – ma anche, per esempio, Paolo Crepet da tempo – abbia riconosciuto su Repubblica che alcuni dei provvedimenti da noi presi sono fondati. Rimettere al centro per esempio la responsabilità individuale. Va superata questa idea per cui la colpa sarebbe sempre della società e mai di chi adotta comportamenti sbagliati. E ancora: ridare importanza alle regole. A iniziare dallo studio della nostra lingua. Ci ricordiamo lo spontaneismo espressivo, che andava di moda ai tempi di De Mauro e Berlinguer e che ha indebolito l’insegnamento di grammatica e sintassi?”.

   
Salto avanti a fine ciclo, ma l’argomento non è dissimile: quello concluso è stato l’anno delle polemiche (e persino qualche applauso della buona società) sui ragazzi che non rispondevano alla maturità perché si sentivano sminuiti. Adesso arriva una riforma che, abbiamo scritto sul Foglio, prova a rimettere le cose sui piedi: se un candidato fa un esame, gli fanno delle domande e lui risponde, nessuno punta il fucile ma le domande servono. “L’orale sarà una prova che vuole mettere al centro la maturità acquisita dal candidato. Ho voluto anche superare il ‘documento’, il ‘progetto’, che suscitava collegamenti casuali da cui fare far partire l’esposizione: che so, dalla fotografia di un vulcano, per sviluppare obbligatoriamente connessioni interdisciplinari spesso forzate, con le domande disciplinari solo eventuali. E’ una riforma che va anche questa nel segno della serietà”.

  
Dunque bene la riforma. I tempi per abolire il valore legale del titolo di studio, antico sogno di Einaudi, in Italia non sono  maturi, il ministro ritiene piuttosto che avere rimesso in carreggiata il tema della serietà e della valutazione è una cosa importante. L’altra grande novità cui il governo della scuola punta come fattore essenziale sono le nuove linee nazionali, o per essere precisi le “Nuove indicazioni nazionali per il curricolo” che modificheranno i programmi scolastici a partire dall’anno 2026-27. Si parte dal ciclo primario, 3-14 anni, poi arriveranno le indicazioni per le scuole superiori. Anche in questo caso, subito grandi polemiche contro “la scuola dirigista”, poi nel concreto poca contestazione fattuale, puntualizza Valditara. Ora un po’ di nuovo fiato alle trombe è venuto dal parere del Consiglio di stato che ha criticato vari aspetti, anche se va detto che l’intervento è dovuto ma è di tipo solo consultivo. “Noi ovviamente con spirito di grande lealtà istituzionale risponderemo punto su punto”, dice il ministro, “ma si tratta meramente di rilievi tecnici non di contenuto, che dunque non verrà modificato”. 

  
Più in generale, su questo che possiamo definire l’intervento di indirizzo del suo ministero che giudizi ha ricevuto? “Devo dire che anche qui il solito fronte monolitico dell’opposizione si è un po’ spaccato, le reazioni negative sono state di area sindacale, la Cgil, e partitica; ma ad esempio commentatori come Antonio Polito o addirittura come Luciano Canfora hanno accolto bene le novità che sono state introdotte, segno che c’è una sinistra disponibile a ragionare seriamente su temi di interesse generale”.

 
Non trova sorprendente la critica, venuta dal mondo sindacale, al grido “non si tocca la libertà di insegnamento”? Un argomento in verità mai troppo frequentato dai sindacati, tutte le volte che sono arrivate riforme dei programmi molto più dirigiste. “Ma la libertà di insegnamento riguarda come insegnare, non cosa insegnare; se dare o meno centralità alla storia dell’occidente, se insegnare o meno il latino è una decisione che spetta al ministero, come ovunque nel mondo.  Come riempire di contenuti queste indicazioni, come insegnare, la metodologia, la didattica, tutto questo è certamente compito dell’insegnante, dell’autonomia delle scuole, che deve essere sempre più valorizzata”.

  
A proposito di autonomia, c’è chi continua a negarne il valore sia culturale sia organizzativo, cosa ne pensa? “Per me l’autonomia è invece una cosa molto importante. Io vado nelle scuole e trovo spesso sperimentazioni fantastiche, nate dal buon uso dell’autonomia. Le cito l’iniziativa ‘Scuola futura’, con cui portiamo letteralmente nelle piazze, a contatto della gente, iniziative di cambiamento della scuola che mostrano una grande  capacità di innovazione. C’è una scuola italiana, assolutamente maggioritaria, che è di grande valore”.

 
Cosa risponde a chi dice che invece abbiamo una scuola non performante? “Che dovremmo iniziare a sfatare alcuni luoghi comuni, perché se andiamo a leggere i test Pisa del 2022 in matematica, materia in cui siamo sempre criticati, scopriamo che gli studenti del nord-est e del nord-ovest hanno risultati superiori a Estonia, Finlandia, Olanda, Germania. Sopra di noi soltanto Giappone, Corea del Sud, Singapore. Paesi, peraltro, che operano una grande selezione meritocratica già nei primi anni di scuola. Il problema dei ritardi c’è, ma è legato soprattutto ai contesti sociali perché è chiaro che se un ragazzo cresce in una famiglia senza adeguati stimoli culturali avrà delle aspettative, delle potenzialità, enormemente inferiori. E’ per questo che Agenda Sud (come anche Agenda Nord) ha voluto coinvolgere i genitori delle famiglie fragili e offrire ai giovani  con maggiori difficoltà occasioni di potenziamento extracurricolare che prima solo i figli delle famiglie benestanti, con le ripetizioni private si potevano permettere”. 


E’ una delle scommesse del vostro governo. Come sta andando? “L’Ocse mi ha invitato in occasione della presentazione del rapporto Education at a glance a raccontare l’esperienza italiana di Agenda Sud. E’ stato un riconoscimento importante. I risultati sono  eccellenti. Ad esempio i test Invalsi in Puglia evidenziano, nelle scuole dove si è avviato il programma Agenda Sud, apprendimenti tre volte superiori rispetto a quelli ottenuti nelle altre scuole; in Campania due volte superiori. Noi abbiamo deciso di non intervenire sul numero degli alunni per classe: i dati Invalsi ci dicono che non è la dimensione della classe a fare la differenza, anzi paradossalmente più sono piccole e minore è il rendimento degli studenti. Forse perché c’è  meno comunità, meno dialogo, minori stimoli, minore emulazione. In letteratura non a caso si parla di “peer effect”, effetto fra pari. Ovvio, poi spetta a un pedagogista chiarire le ragioni, ma questi sono dati statistici e indicano che il metodo italiano di dare più insegnanti alla scuola per fare potenziamento, per far sì che una famiglia modesta abbia una possibilità in più di supporto, senza dover ricorrere alle ripetizioni (e questo tra l’altro consente una ulteriore valorizzazione economica della professionalità degli insegnanti), è migliore, più lungimirante”.


A proposito di insegnanti, ha molto colpito la lettera di un docente di Pavia che ha detto: me ne voglio andare, perché io vorrei tanto insegnare, invece la scuola è sempre più ridotta a compilare programmi, registri elettronici, moduli, riunioni burocratiche e la dimensione dell’insegnare, educare, del tu per tu con lo studente non c’è più. Bisogna liberare non solo le scuole, ma anche i docenti. “Il loro lavoro va sostenuto, e anche semplificato. Fra l’altro è in corso, e credo che nelle prossime settimane ci saranno alcune importanti proposte, un tavolo tecnico per attuare una semplificazione dei percorsi di carriera, ad esempio per un trasferimento non si dovrà più produrre documentazione, dovranno essere informatizzate tutte le funzioni del ruolo professionale. Basterà il codice fiscale”. 


Bene, ma c’è un altro aspetto nel lavoro, non riguarda solo la carriera ma il ruolo dell’insegnante. Anche questo deve essere affrontato. “C’è un tema che riguarda quella che chiamo la personalizzazione del lavoro dei docenti, su cui stiamo investendo risorse ed è il tema del futuro, cioè della formazione concepita sempre più come un abito sartoriale, modellata sui singoli studenti. Puntiamo molto anche sul docente-tutor, sul docente orientatore perché questo è anche un modo per formare sempre meglio gli insegnanti. Dobbiamo costruire un percorso di sempre più forte personalizzazione”. 


Ma possono bastare questi aspetti? Non c’è anche la necessità di permettere all’insegnante di andare in classe, scegliere come insegnare, magari senza dover sottostare a libri di testo spesso pletorici? Stare di più in classe senza dover inseguire riunioni e format. La cosa paradossale è che le ore di svolgimento del programma in classe diminuiscono perché c’è sempre qualche iniziativa diversa da fare. I corsi su questo e su quello, l’offerta “extra curricolare”. Non è forse il momento anche per questo tipo di ritornare alla serietà della scuola puntando sulle discipline? Ci pensa un po’ su, il ministro, non per un dubbio sulla concretezza del problema, ma come per misurare lo spazio di agibilità dell’insegnamento rispetto a una direzione generale che nella nostra società è stata impressa all’idea di scuola, alla richiesta che viene fatta all’istituzione. Una strada spesso diversa. “Alla scuola si richiede non più soltanto di istruire i giovani, ma anche di educarli. E’ un fenomeno non limitato alla realtà italiana, ma internazionale. Il tema dell’educazione è sempre più sentito come un problema di formare i giovani a comportamenti socialmente positivi. Del resto già i nostri Costituenti pensavano che accanto alla educazione data dai genitori si affiancasse e si integrasse l’educazione a scuola. E’ dunque indubbio che la scuola non può limitarsi a insegnare le materie disciplinari, oggi è decisivo anche far sentire l’importanza di determinati messaggi educativi. Pensiamo al tema della educazione al rispetto contro ogni forma di bullismo e di prevaricazione, della educazione a relazioni corrette nei confronti delle donne, della educazione stradale, della educazione a stili di vita sani e positivi”.


Un’agenzia formativa specialistica? “No, come abbiamo fatto con le nuove linee guida, l’educazione civica va fatta innanzitutto all’interno dei programmi disciplinari”.


Secondo il recente rapporto Ocse “Education at a glance”, l’Italia investe per l’istruzione il 3,9 per cento del pil, dato inferiore alla media Ocse che è al 4,9 per cento. Cosa possiamo fare? “Però vanno precisate alcune cose. Eurostat ad esempio dice che la spesa è inferiore alla media europea, ma perché dentro c’è anche l’università. Poi risulta che all’estero spendevano molto di più anche perché questi dati sono pre Pnrr e nell’indagine c’è anche la spesa da 0 a 3 anni; ma se guardiamo la spesa per studente nella scuola secondaria, l’Italia è nella media e per la formazione primaria decisamente sopra la media. In rapporto al pil veniamo prima della Germania. Il che non significa che non dobbiamo spendere sempre di più, come stiamo facendo: nella ultima legge di Bilancio la spesa per la scuola è salita dell’8,9 per cento”. 


Ma abbiamo una dispersione alta. “Anche qui: sugli abbandoni, la cosiddetta dispersione esplicita, l’Italia sta facendo progressi molto importanti. Secondo le stime Invalsi nel 2025 la dispersione esplicita sarebbe scesa all’8,3 per cento a fronte di un obiettivo Ue al 2030 del 9 per cento. La Germania è oltre il 10. Decisivi sono stati il decreto Caivano e Agenda Sud”. 


Per incidere davvero su queste dinamiche di dispersione, ragiona Valditara, è però necessario anche un cambio di modello e un avvicinamento tra il mondo del lavoro e quello dell’istruzione: “Ci vuole un coinvolgimento di privati, infatti abbiamo istituito al ministero la direzione per il ‘trasferimento tecnologico’, per raccordare privato e pubblico e mettere in contatto le esigenze delle scuole con le esigenze delle imprese. E’ fondamentale che le imprese investano sempre più in istruzione”, aggiunge il ministro. Anche la riforma del 4 + 2 per l’istruzione tecnica, che ora diventa ordinamentale – dal prossimo anno scolastico ogni scuola dovrà proporre un percorso 4 + 2 –, va in questa direzione. “Tra l’altro il documento che abbiamo approvato nel Consiglio informale Ue tenutosi in Danimarca contiene la raccomandazione di applicare proprio le idee che noi abbiamo già anticipato nel modello 4 + 2. Alla base c’è una svolta culturale nel rapporto fra scuola e mondo dell’impresa. Purtroppo c’è una parte del sindacato, essenzialmente la Cgil,  e  una certa sinistra che sono ritornate a posizioni massimaliste tipiche del vecchio Pci. Invece di guardare al futuro hanno ripreso un linguaggio marxista, parlando di sfruttamento del capitale su studenti trasformati in forza lavoro. Abbiamo bisogno di poter dialogare con una sinistra riformista, moderna. I nostri giovani non possono perdere opportunità occupazionali importanti. Il nostro sistema produttivo ha infatti drammaticamente bisogno per crescere ed essere competitivo di qualifiche professionali e tecnici preparati adeguatamente e che ora non trova sul mercato del lavoro. La filiera, che instaura un rapporto stretto fra scuola, Its e impresa, è un passo avanti importante anche rispetto al modello duale tedesco. Le imprese coinvolte non solo sono luoghi di formazione, i dirigenti, gli imprenditori non solo  possono insegnare a pieno titolo su materie specialistiche per le quali manchino le competenze nella scuola, ma le imprese progettano insieme alla scuola il curricolo formativo. Non è un caso che questo nuovo modello susciti interesse anche in altri stati, come indicano i numerosi protocolli che abbiamo sottoscritto con alcuni paesi africani, ma anche europei”. Onore al merito.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"