(LaPresse)

contro le etichette

L'inferno di una scuola arresa alla burocrazia, florilegio di ragazzi Dsa e Bes

Alfonso Berardinelli

La promessa di un paradiso pedagogico minaccia di diventare una catastrofe per gli insegnanti, che dovranno diventare, o fingere di diventare, dei sottilissimi esperti in categorie caratteriali e in varianti psico-socio-neuro-logiche dei giovani

Corro il rischio di specializzarmi in un’attività non molto corretta: parlare bene e promuovere le riviste in cui scrivo (Una città, Vita e Pensiero, L’età del ferro) ma avendo un tale scrupolo mi metto fuori della contemporaneità e del suo spirito, lo spirito pubblicitario. Tutti o quasi pubblicizzano se stessi, il proprio partito, la propria squadra di calcio, la propria professione e le proprie competenze, le proprie idee e convinzioni, le proprie manie preferite, le proprie foto nei social… Perciò scavalco le mie remore e consiglio di leggere un saggio di Walter Siti “contro le categorie” intitolato “L’identità di genere e gli animali dell’imperatore”, uscito nel numero di agosto dell’Età del ferro, che dirigo con Giorgio Manacorda e lo stesso Siti. Il perché di questo attacco all’abusata divisione del genere umano in categorie, lo si capirà da quanto segue nel presente articolo. 

 

Ho letto da cima a fondo un dossier che domenica 19 Repubblica ha dedicato alla scuola, all’insegnamento, alle normative che regolano la didattica, alle prassi pedagogiche più adatte per gli allievi meno adatti, i denominati Bes (bisogni educativi speciali) o Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento). Come ha rilevato l’ultimo report dell’ufficio scolastico dell’Emilia-Romagna, a forza di diagnosi si è passati da circa diecimila casi di alunni Dsa nel 2013 agli attuali trentatremila. Aumentano le diagnosi e si estendono le categorie di bambini e ragazzi considerati “non normali”? O si stanno effettivamente diffondendo patologie neuropsichiatriche? Il fatto è, mi sembra, che per evitare le “diagnosi tardive” sono stati accelerati i controlli (screening) precoci. Cioè: non si dà tempo a un bambino di fare le sue prove e i suoi esperimenti con l’ambiente, che si vanno subito a misurare e calcolare secondo schemi e protocolli la sua normalità o deviazione dalla norma: a fin di bene, naturalmente, perché non si trovino male più tardi, da adolescenti. Personalmente trovo un po’ agghiacciante l’omologazione precoce dei bambini. Li si vuole socializzati presto e nello stesso modo.

 

Più leggevo l’articolo e più apprendevo e mi informavo (la legge 170 del 2010, la legge 53 del 28 marzo 2003, le linee guida e le direttive ministeriali) e più mi girava la testa, più commiseravo gli insegnanti, gli alunni e le condizioni dell’intera vita scolastica. Vari sono i tipi di “svantaggio scolastico”, di “bisogni educativi speciali” secondo l’Icf (International classification of functioning) dell’Organizzazione mondiale della Sanità, per cui sono stati istituiti i Cts (Centri territoriali di sostegno) creati dagli uffici scolastici regionali, in accordo con il ministero dell’Istruzione attraverso il progetto “Nuove tecnologie e disabilità” e tutto a favore dell’integrazione didattica dei poveri alunni Bes. Poco più avanti, con la legge 170 del 2010, per i Dsa e i Bes arriva una diversa comprensione: viene sancito il principio della personalizzazione dell’insegnamento oltre che il diritto allo studio per tutti. Si tratta di “favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia”. Non basta: diventa obbligatorio che “l’apprendimento sia assicurato in tutto l’arco della vita” e che  a tutti sia data “pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze”, eccetera. 

 

La favola dell’estensione della burocrazia diagnostica sembrerebbe avere così un lietissimo fine. Ma arrivo a sospettare che quando si promette troppo si fa più reale la prospettiva del fallimento. Il nostro sistema scolastico ha davvero i mezzi per garantire e rendere effettivamente realizzabili tutti questi diritti? Quali e quanti insegnanti saranno mai capaci, saranno mai messi nella condizione di “personalizzare l’insegnamento”, distinguere “i ritmi variabili dell’età evolutiva” e tenere conto dell’identità, delle differenze non solo dei singoli alunni ma perfino delle “scelte educative delle (loro) famiglie”? L’insegnante cioè dovrà insegnare quello che le famiglie vogliono e nel modo in cui lo vogliono?

 

La promessa di un paradiso pedagogico minaccia di diventare un inferno per gli insegnanti, che dovranno diventare, o fingere di diventare, dei sottilissimi esperti in categorie caratteriali e in varianti psico-socio-neuro-logiche dei giovani. Sono tentato di recuperare la mia vecchia rassegnazione scettica a proposito dei progetti di socializzazione buona, giusta, correttamente democratica e scientificamente fondata: credo che la scuola di massa avrà sempre i suoi fatali difetti (routine, appiattimento, incomprensione, fretta e lentezza alternate, standardizzazione del comportamento e del linguaggio, eccetera) e quindi spetterà ai singoli trovare, più tardi, nel corso della vita, il modo di rimediare alle storture, angherie, “ingiustizie” patite, nonché alla propria personale avversione per lo studio scolasticamente inteso. Ognuno di noi rielabora da adulto le proprie esperienze di scolaro e studente. Benché alienanti, i voti in numeri si limitavano a misurare la singola prestazione scolastica, non pretendevano di giudicare e “curare” l’intera persona, tantomeno in termini neuropsichiatrici. 
Si è fatta autocritica per quanto riguarda l’eccesso di diagnosi, ma poi si promette la piena felicità di essere compresi per quello che individualmente si è: torneranno le categorie, anche se non medicalizzate ma neutre, “parificate”. 

 

Per fortuna qualcuno si è ribellato alla medicalizzazione a tappeto della scuola. Per esempio il pedagogista critico Daniele Novara, che definisce quella italiana “la scuola delle etichette”. Lui a Piacenza ha fondato un centro psicopedagogico (non voglio dire un Cpp) nel quale, se si escludono le vere e gravi disabilità, si rifiuta però l’applicazione fin dalla scuola d’infanzia di etichette e categorie cliniche tipo Dsa e Bes in quanto si tratta di una “resa dell’insegnamento attuale alla burocrazia”. Mi chiedo soltanto se gli esiti attuali non siano figli della burocrazia che nella scuola ha sempre regnato, anche se in misura più contenuta, meno scientifica. Come si è capito da Max Weber ai Francofortesi, chi dice “organizzazione sociale” dice “razionalizzazione burocratica”, una razionalizzazione che si rovescia presto in irrazionalità e cecità formalizzata di fronte a ogni fenomeno reale. Se questo è vero, alla scuola in quanto istituzione statale e amministrazione non c’è rimedio, se non nell’intelligenza e capacità degli insegnanti, cioè di una preziosa minoranza di loro.

 

Torno velocemente a Walter Siti e alla sua critica delle categorie. Siti ci parla, oltre che di “transgender”, anche di “cisgender maschio”, “cisgender femmina”, “agender” (senza genere), “pangender” (tutti i generi immaginabili) e “bisgender” (chi alterna genere secondo i momenti). Dire uomo o donna sembra rozzo, primitivo. Per rimediare ci si aggrappa a sottocategorie rassicuranti. Essere se stessi e basta, non basta. “L’individuo che si assume la responsabilità di ciò che è e ciò che vuole sembra essere una specie in via di estinzione”. “Ci si vuole distinguere, restando in gruppo”

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