Una scena di Pink Floyd The Wall, film del 1982 diretto da Alan Parker. La pellicola è la trasposizione cinematografica del concept album The Wall, realizzato nel 1979 dai Pink Floyd

La didattica a distanza è anche questione di marketing

Antonio Gurrado

Il matrimonio tra Big Tech ed élite accademiche funziona in America, non da noi

Sta diventando un luogo comune dire che la didattica a distanza favorirà gli alunni ricchi, con incolmabile svantaggio per gli altri. Scott Galloway, professore di Marketing alla Stern School of Business di New York, azzarda invece sul New York Magazine un’ipotesi controintuitiva: a lungo andare la merce per ricchi diventerà la didattica in presenza.

  

Galloway si riferisce a un contesto difforme dal nostro, quello delle università americane d’élite. Facile profeta, individua come prossimo passo della loro evoluzione l’ingresso delle compagnie Big Tech nell’accademia: Apple, Facebook o Google, consorziate magari con singoli atenei, consentiranno alle migliori università di fornire lauree tecnologicamente ibride, con corsi per cui non farà differenza la presenza fisica o virtuale dello studente. Non deve sorprendere: storicamente le migliori università sono state quelle dotate delle migliori infrastrutture. L’eccellenza che un tempo si manifestava attraverso l’architettura (pensate al palazzo della Sorbona, ai grandi college britannici, agli avveniristici campus statunitensi) in futuro si manifesterà attraverso infrastrutture digitali. Non a caso, pochi giorni fa, l’Università di Cambridge è stata la prima ad annunciare che il prossimo anno accademico tutte le lezioni si terranno online: tanto anticipo fa pensare che non si tratti tanto di cautela quanto di prospettiva.

 

La ricaduta, secondo Galloway, sarà duplice. L’ingresso del Big Tech nell’élite universitaria amplierà la cerchia di fruitori: oggi le migliori università sono costrette a selezionare alcuni candidati eccellenti scartandone altri per mere ragioni di spazio. La tecnologia consentirà di estendere i corsi a un pubblico più vasto, quantunque selezionato. Per questo, ed è l’effetto speculare, le università di medio livello che si accaparravano studenti eccellenti scartati da Stanford o dal Mit vedranno progressivamente svanire questa prospettiva e dovranno reinventare la propria offerta, sapendo che nessuno vorrà frequentare un buon ateneo quando può frequentarne uno ottimo.

 

La soluzione, per loro, sarà riprogrammare l’offerta. L’istruzione universitaria infatti muove su due binari: da un lato il pezzo di carta, la certificazione delle competenze, dall’altro l’esperienza di vita. E’ ovvio che, digitalizzandosi, le università d’élite perderebbero in specificità dell’esperienza; alle università medie non resterebbe allora che caratterizzarsi per la vita che offrono in loco, specializzandosi in determinati settori su cui fornire un approccio tradizionale. Se non che, è costoso; queste università medie cambieranno dunque il loro bacino d’utenza, sostituendo alle eccellenze scartate le famiglie ricche, desiderose di offrire ai rampolli un’esperienza unica. Secondo Galloway, non tutto il male viene per nuocere. Quest’evoluzione consentirà di decuplicare il numero di studenti che accederanno alle cyber-università e che la didattica in presenza restringeva troppo. Si creerà così un manipolo di buoni studenti ricchi.

 

E l’Italia? Galloway non ne parla ma dalla sua visione possiamo trarre qualche indicazione, ovviamente preoccupante. Ritiene che il Big Tech s’interesserà alle università d’élite perché il simile conosce il simile: Stanford, Oxford, Cambridge sono fra i pochi marchi che possano vantare maggiore fama e affidabilità di Apple, Facebook, Google; associarsi a essi, per i colossi tecnologici, significherebbe legare il proprio nome a beni di lusso intellettuali in una formidabile operazione di marketing. In Italia l’allure delle università è molto diversa. Già solo il valore legale della laurea appiattisce l’importanza degli atenei nell’opinione comune, favorendo troppo il pezzo di carta rispetto all’esperienza specifica; si dà poca importanza a quale università abbiano frequentato i personaggi pubblici eliminando potenziali testimonial del prestigio delle università stesse, abbandonate a una talora patetica autopromozione. Perché il Big Tech dovrebbe associare il proprio nome a marchi incerti? C’è il rischio che alla lunga in Italia la tecnologia interessi molto all’università ma l’università non interessi gran che alla tecnologia; e che quindi alcuni atenei reagiscano trasformandosi in pittoresche ridotte della didattica tradizionale, rivolte a una clientela facoltosa, magari straniera.

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