Poco curata e burocratizzata, la scuola italiana va ripensata al contrario

Alfonso Berardinelli

Ogni società ha il sistema scolastico che le somiglia

Ha mai davvero funzionato la scuola? Sarebbe già sufficiente se funzionasse la scuola primaria e non rovinasse i bambini. Per il resto, oggi agli adolescenti è difficile fare entrare in testa qualcosa che non venga dalle culture di massa e dall’informatica…

 

Della scuola si parla sempre poco, malvolentieri e spesso a proposito di singoli aspetti o problemi: o perché gli edifici scolastici sono fatiscenti, o perché gli insegnanti vivono di precariato, o per qualche trovata di ingegneria burocratica, o per l’assurdità inconsulta di qualche tema agli esami di maturità…

 

Ma con l’inizio dell’anno scolastico l’interesse (per un momento, solo per un momento) sembra che si risvegli. Perfino Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica”, principe del giornalismo italiano, filosofo, narratore, a cui la Mondadori ha dedicato uno dei suoi Meridiani, nell’editoriale di domenica 27 agosto ha dichiarato che il primo problema di cui gli importava di parlare era l’intenzione di ridurre da cinque a quattro anni la scuola media superiore, perché questo è sbagliato, perché così i programmi “non arrivano” al Novecento, secolo importantissimo e trascurato. La questione e l’idea sono riprese poi in un’intera pagina da un articolo di Stefano Bartezzaghi e da un’intervista al professor Guido Baldi, autore, si dice, di un “manuale bestseller” di letteratura italiana. La tesi sostenuta e variamente illustrata è ovviamente la stessa di Scalfari: ci vogliono i tradizionali cinque anni della scuola superiore perché solo così si può studiare il Novecento.

 

Non si sa bene da dove piova questa strana idea. I problemi mal posti generano controproposte ridicole. Già ora e da decenni non si arrivava mai a studiare il Novecento. Che poi si debbano studiare anche i romanzi che hanno vinto il premio Strega, come vorrebbe il professor Baldi, mi sembrerebbe una sciagura. Certo, si può studiare qualunque cosa, purché la si giudichi, anche.

 

Proporrei semmai di abolire il premio Strega per carenza di narrativa premiabile. Anzi, già che ci sono e per non apparire distruttivo, mi permetto di fare una proposta al premio Strega: perché, invece di ostinarsi a premiare solo i romanzi, non si accettano in concorso anche la poesia (se leggibile!) e la saggistica di vario tipo, per esempio storica, scientifica, critica, e (perché no?) giornalistica? Se ci si limita a premiare solo le cosiddette “scritture creative”, si finisce per doversi accontentare di quello che c’è, del meno peggio, che oggi abbonda, cresce di anno in anno e sta beatamente precipitando nel puro e semplice peggio.

 

A studiare il Novecento non ci si dovrebbe “arrivare”, perché invece sia il Novecento che il presente dovrebbero essere l’ovvio punto di partenza per risalire al passato, anche il più remoto. Qui qualche dose di antropologia culturale (disciplina molto novecentesca) non farebbe male: sia per capire la diversità tuttora persistente delle culture (ogni continente ne ha una con caratteristiche proprie) sia per ricostruire la genealogia del nostro modo di conoscere, di credere, produrre, consumare, organizzare, cercare sicurezza e benessere. Formare negli studenti il senso storico e la consapevolezza del passato non vuol dire partire dall’antico Egitto e passo dopo passo, mese dopo mese, anno dopo anno, senza saltare un decennio, “arrivare” spossati al Novecento. Significa invece sapere che il presente ha una sua storia in ognuna delle sue componenti: regimi politici, forme economiche, mezzi di trasporto, tecnologie della comunicazione, uso del corpo e della mente, conflitti e guerre, lusso e piaceri, tra cui l’espressione artistica.

 

Tutto si potrebbe fare. Perché non si fa? Tra scuola e società c’è un’osmosi incontrollabile perché necessaria. Ogni società ha la scuola che le somiglia e che merita. La scuola italiana è afflitta, come l’intera società nazionale, dall’incuria, dall’approssimazione, dal morbo burocratico, dal pensare ad altro degli insegnanti, da una disperante alterità fra bei discorsi e cattiva pratica. Il progetto di una vera riforma di ogni “ordine e grado” dell’istruzione dovrebbe essere elaborato dai migliori intelletti di un paese, preferibilmente da quelli meno legati a schieramenti politici, perché la politica corrompe non meno degli affari. I soldi e il potere (diciamo così) confondono le idee.

 

Veniamo agli studenti. Troppo spesso, nel corso dell’adolescenza, la scuola è soprattutto scuola di cattiva socializzazione. L’adolescente, il liceale, non è ancora un individuo, è un elemento del gruppo, se non del branco. A quell’età andare controcorrente da soli è quasi inconcepibile. Se accade, si rischia di essere catalogati come un caso clinico e guardati con sospetto sia dai compagni di classe che dagli insegnanti. In realtà a diciotto anni si è maggiorenni, si dovrebbe uscire da quella gabbia, quattro anni bastano. Con quello che oggi succede nelle scuole, cinque anni sono troppi. Stare lì dentro troppo a lungo infantilizza e rimanda non solo il cosiddetto “incontro con la vita”, ma anche l’incontro con se stessi.

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