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cattivi scienziati
L'acqua non è solo un ingrediente fortunato arrivato per caso
Uno studio pubblicato su Nature affronta il tema della sua origine, mostrando che può essere prodotta chimicamente durante la formazione di un pianeta roccioso. L’idea che debba arrivare necessariamente dall’esterno, trasportata da comete o asteroidi, perde il suo ruolo esclusivo
Quando si afferma che l’acqua è indispensabile alla vita, si sta in realtà dicendo qualcosa di più radicale: senza acqua non esiste nemmeno quella lunga fase di evoluzione chimica che precede la vita e che rende plausibile la sua comparsa. L’acqua non è soltanto necessaria ai viventi, ma è un agente chimico che permette reazioni complesse, cicli di trasformazione, selezioni progressive. Senza acqua, la chimica del carbonio resta povera; con l’acqua, può evolvere in direzione di una complessità crescente.
Per questo la domanda sull’origine dell’acqua non è una questione accessoria della geologia planetaria, ma uno dei nodi centrali per comprendere come possano nascere mondi abitabili. Un lavoro sperimentale di Francesca Miozzi e collaboratori, pubblicato da poco su Nature, affronta questa domanda in modo diretto e sorprendentemente concreto, mostrando che l’acqua può essere prodotta chimicamente durante la formazione stessa di un pianeta roccioso. Non si tratta di acqua intrappolata e liberata successivamente o proveniente per esempio da comete, ma di acqua che si forma mentre le rocce sono ancora fuse, incandescenti, immerse in un’atmosfera primordiale ricca di idrogeno. In senso letterale, l’acqua viene spremuta dalla roccia mentre il pianeta nasce.
Per capire il significato di questo risultato bisogna tornare alle prime fasi della vita di un pianeta. Un pianeta giovane non è un corpo solido e tranquillo, ma una massa in accrescimento, riscaldata dagli impatti e dalla attività radioattiva interna fino a fondere gran parte del suo mantello. In questa fase esiste un oceano globale di magma, con temperature di migliaia di gradi. Se il pianeta raggiunge una massa sufficiente, può anche trattenere un’atmosfera primordiale dominata dall’idrogeno, il gas più abbondante nell’universo. È in questo scenario, comune soprattutto nei pianeti rocciosi più massicci e nei cosiddetti sub-Nettuno, che avviene l’interazione cruciale fra atmosfera e interno.
Da tempo i modelli teorici suggerivano che il contatto fra un oceano di magma e un’atmosfera di idrogeno potesse portare alla formazione di acqua. Mancava però una verifica sperimentale in condizioni realistiche di pressione e temperatura. Il lavoro di Miozzi colma questo vuoto con esperimenti tecnicamente estremi: campioni di roccia di composizione simile a quella del mantello primordiale terrestre vengono compressi fra due diamanti fino a pressioni di decine di gigapascal e riscaldati oltre i 4.000 kelvin mediante laser, il tutto in presenza di idrogeno.
Il primo risultato fondamentale è che l’idrogeno penetra nel magma in quantità molto elevate. Le analisi mostrano che i silicati fusi possono incorporare grandi quantità di idrogeno. In altre parole, il magma caldo e profondo agisce come un vero e proprio serbatoio per l’idrogeno atmosferico, con una solubilità che dipende soprattutto dalla temperatura: più il sistema è caldo, maggiore è la quantità di idrogeno che entra nel materiale fuso. Questo indica che l’atmosfera primordiale non è un semplice rivestimento passivo del pianeta, ma una componente chimicamente attiva che scambia materia con l’interno.
Il secondo risultato è ancora più significativo. L’idrogeno disciolto nel magma non resta chimicamente inerte, ma reagisce con gli ossidi presenti nella roccia fusa, in particolare con l’ossido di ferro. Il ferro viene ridotto allo stato metallico, separandosi in piccole gocce dense, mentre l’ossigeno liberato si combina con l’idrogeno formando molecole di acqua. Questa acqua, alle condizioni sperimentali, esiste come fluido distinto dal magma e dal metallo. Durante il raffreddamento e il recupero dei campioni, l’acqua sfugge, lasciando dietro di sé cavità ben visibili nelle sezioni osservate al microscopio.
Le quantità prodotte sono tutt’altro che trascurabili. Anche considerando solo la riduzione completa dell’ossido di ferro inizialmente presente, la quantità di acqua generata è significativa. Questa stima rappresenta peraltro un limite inferiore, perché anche altri ossidi possono partecipare a reazioni analoghe. Ne emerge un quadro in cui un pianeta roccioso in formazione, se immerso in un’atmosfera di idrogeno, è chimicamente predisposto a produrre acqua in modo endogeno, come parte naturale del suo processo evolutivo.
Le implicazioni sono profonde. L’idea che l’acqua debba arrivare necessariamente dall’esterno, trasportata da comete o asteroidi, perde il suo ruolo esclusivo. Questi contributi possono aver avuto un’importanza, ma non sono più indispensabili per spiegare la presenza di acqua su un pianeta. L’acqua può nascere dall’interazione fra atmosfera e mantello, essere inizialmente intrappolata in profondità, rilasciata gradualmente in superficie o in atmosfera, e partecipare a cicli interni di lunga durata.
Dal punto di vista dell’evoluzione chimica prebiotica, questo significa che l’acqua può essere presente molto presto, quando il pianeta è ancora caldo, instabile e in rapido cambiamento. Non è necessario attendere oceani superficiali stabili nel senso moderno del termine perché esistano ambienti acquosi capaci di sostenere una chimica complessa. La chimica che precede la vita può svilupparsi in un mondo in formazione, dove roccia, acqua e atmosfera sono in comunicazione continua.
Questo risultato ha inoltre un forte impatto sull’astrobiologia. I pianeti di tipo sub-Nettuno, oggi i più comuni fra quelli osservati nella nostra galassia, presentano proprio le condizioni ideali per questo meccanismo: interni rocciosi fusi e atmosfere di idrogeno mantenute per tempi molto lunghi. Se l’acqua può essere prodotta in modo così efficiente in questi contesti, la presenza di acqua nei pianeti rocciosi potrebbe essere molto più diffusa di quanto si sia pensato finora.
In definitiva, questo lavoro mostra che l’acqua non è soltanto un ingrediente fortunato arrivato per caso. Può essere il risultato diretto delle leggi fisiche e chimiche che governano la nascita di pianeti di un tipo ben diffuso nel nostro universo.
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