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cattivi scienziati

Dopo il caso della Cnrs è stato scoperto un nuovo tipo di umano: il terrapiattista bibliometrico

Enrico Bucci

La sua certezza non nasce dall’analisi ma dall’abitudine, e non gli importa se l’intero ecosistema si è deformato per adattarsi alla pressione a pubblicare ed esser citati per fare carriera. Ma il mondo (come mostra la Francia) sta già cambiando

C’è un momento, in ogni dibattito pubblico, in cui ci si accorge che non tutti stanno guardando la stessa realtà. Lo si vede dalle reazioni, dai commenti, da quella strana ostinazione che resiste anche quando i fatti si accumulano. È successo ancora ieri, dopo il mio articolo dedicato alla scelta del Cnrs. Basta leggere certe risposte sui social: un riflesso condizionato che nega l’evidenza prima ancora di discuterne. “Da noi non si può fare.” “È irrealizzabile.” “I baroni.”

 

                 

 

Quelle reazioni mi hanno confermato una sensazione che covavo da tempo: nella discussione sulla ricerca è emerso un nuovo tipo umano, una figura che non appartiene alla scienza, ma alla psicologia della scienza. È il terrapiattista bibliometrico. Una persona convinta che gli indicatori siano l’unico modo possibile per valutare il lavoro degli scienziati, che la qualità coincida con il numero di citazioni, che la complessità della conoscenza possa essere compressa in un algoritmo misurabile. E soprattutto convinta che tutto questo sia inevitabile.

La sua certezza non nasce dall’analisi, ma dall’abitudine. La bibliometria è diventata, negli anni, una sorta di geografia semplificata del mondo accademico: rassicurante, ordinata, con continenti nitidi e confini precisi. Il problema è che quella mappa è sbagliata, e lo sappiamo. Non lo dico io: lo hanno mostrato gli scandali che si sono accumulati come una sequenza di onde sempre più alte. Le paper mills che vendono articoli pronti all’uso, completi di dati falsi e autori di comodo. Le review mills che offrono revisioni fasulle, spesso coordinate con editor compiacenti, per manipolare le citazioni suggerendo quali articoli inserire in bibliografia. L’hijacking citazionale, con riviste e gruppi di ricerca che si scambiano citazioni a pacchetti per gonfiare artificiosamente l’impact factor e l’h-index. Migliaia di ritrattazioni, intere specialità contaminate, archivi editoriali da bonificare. E tutto questo non come conseguenza marginale, ma come effetto strutturale della pressione bibliometrica, che alimenta il sistema di incentivi alla pubblicazione chiamato “publish or perish”.

Eppure il terrapiattista bibliometrico continua a ripetere che “senza numeri non si può valutare obiettivamente”, e che ogni alternativa sarebbe soggettiva, caotica, pericolosa. Non importa che la bibliometria, oggi, abbia generato proprio il caos che pretendeva di evitare. Non importa che, nelle valutazioni individuali, gli indici abbiano mostrato una correlazione debole con la qualità stimata dagli esperti, quando non addirittura assente. Non importa che l’intero sistema si sia rivelato vulnerabile, permeabile ai falsi, incapace di distinguere il solido dal fasullo. Non importa nemmeno che i baroni, lungi dall’essere respinti, si siano invece semplicemente adattati al nuovo sistema (ricavandone per altro il vantaggio di essere ancora meno attaccabili, sotto la finta patina di obiettività degli indici bibliometrici). E, soprattutto, non importa che nell’illusione di correggere un problema locale – quello dei concorsi manipolati – abbiamo rovinato l’impresa scientifica globale, perché la pubblicazione dei dati è una parte essenziale della ricerca.

Per il terrapiattista bibliometrico questo non conta, perché non è disposto a guardare oltre i bordi della sua mappa piatta. La parte più paradossale è che tutti i fenomeni più deteriori che oggi denunciamo — dalla proliferazione delle riviste predatorie al mercato nero delle revisioni, dalle catene citazionali artificiali fino ai paper generati dall’AI pubblicati senza controllo — sono figli legittimi della cultura bibliometrica. Nessuno falsificherebbe un articolo se quel dato non fosse un biglietto d’ingresso. Nessuno comprerebbe una revisione se un articolo scientifico non fosse diventata moneta corrente della carriera accademica. Nessuno creerebbe reti citazionali gonfiate se da quelle citazioni non dipendessero carriere e fondi. Nessuno trasferirebbe il suo lavoro, finanziato con fondi pubblici, e nessuno lavorerebbe gratis, per poi ricomprare da organizzazioni terze il frutto del proprio lavoro, con guadagni enormi per queste ultime.

È l’intero ecosistema che si è deformato per adattarsi alla pressione sugli indicatori, cioè alla pressione a pubblicare ed esser citati per fare carriera. E quando qualcuno propone di cambiare, ecco la risposta rituale: “eh, ma i baroni”. È esattamente equivalente alla frase che ogni terrapiattista pronuncia prima di guardare verso l’orizzonte e rifiutarsi di vedere la curvatura del mondo. L’impossibilità è quasi sempre una scusa per conservare il proprio vantaggio o la propria abitudine.

La realtà, invece, è chiara: non si tratta di eliminare i numeri, ma di rimetterli al loro posto. La bibliometria ha senso come strumento descrittivo, aggregato, di contesto. Diventa devastante quando viene usata come strumento prescrittivo, quando decide chi merita e chi no, chi entra e chi resta fuori, come avviene con l’abilitazione nazionale in Italia. A quel punto non misura più la scienza: la deforma.

Il terrapiattista bibliometrico continuerà a dire che la Terra è piatta e che le citazioni sono l’unica bussola. Ma il mondo, come mostra la Francia, sta già cambiando; ed i terrapiattisti esistono, sì, ma non pilotano gli aeroplani verso il disastro, come fanno per la valutazione della ricerca i credenti del culto bibliometrico.

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