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Cattivi scienziati

L'incredibile sviluppo della neurotech fa emergere alcune riflessioni etiche

Enrico Bucci

Se da un lato la neurotecnologia promette benefici tangibili nel campo della riabilitazione, dall'altro comincia a entrare in territori molto meno regolati dove le finalità sono comportamentali, educative e produttive. Inoltre sempre più dispositivi neurotecnologici non si limitano a osservare, ma sono progettati per intervenire

Fino a pochi anni fa, l’idea che un dispositivo potesse leggere l’attività del cervello in tempo reale e trasformarla in azioni concrete – parole, movimenti, comandi – apparteneva all’immaginario della fantascienza. Ma oggi non è più così. Esiste già una persona, negli Stati Uniti, che comunica con il mondo esterno grazie a un’interfaccia neurale impiantata nella corteccia cerebrale. È un uomo affetto da sclerosi laterale amiotrofica, incapace di parlare o muoversi, che riesce a generare frasi a circa trenta parole al minuto semplicemente pensando di parlare: il dispositivo decodifica l’attività elettrica legata al linguaggio e la trasforma in testo e voce sintetizzata. In un altro laboratorio, pazienti con paralisi completa hanno recuperato la capacità di camminare grazie a un ponte digitale tra cervello e midollo spinale: il sistema registra l’intenzione di muoversi e la traduce in stimolazioni precise che riattivano i circuiti spinali. E in Svizzera, uno studio ha documentato come, dopo settimane di allenamento con un’interfaccia neurale, un uomo tetraplegico sia riuscito a salire scale e camminare su terreni irregolari con il supporto di un deambulatore, un risultato impensabile solo un decennio fa.

 

Questi non sono casi isolati, ma segnali coerenti di un cambiamento. La neurotech – il complesso di tecnologie che interagiscono con il sistema nervoso per leggerne o modularne l’attività – ha smesso di essere un concetto astratto. È diventata una frontiera concreta della ricerca medica, dove la combinazione di impianti miniaturizzati, algoritmi di apprendimento automatico e neuroscienze avanzate permette di restituire funzioni perdute. La stimolazione cerebrale profonda, già usata da anni nel trattamento del Parkinson, viene ora sperimentata con modalità adattive: il dispositivo non si limita a inviare impulsi costanti, ma registra i segnali neurali in tempo reale e interviene solo quando rileva i primi segni di un sintomo. E la stessa logica si sta estendendo a disturbi psichiatrici come la depressione resistente, aprendo la strada a una medicina neurologica sempre più personalizzata.

 

È proprio questa transizione a rendere urgente una riflessione più ampia. Perché se da un lato la neurotech promette benefici tangibili nel campo della riabilitazione, dall’altro comincia a entrare in territori molto meno regolati, dove le finalità non sono terapeutiche, ma comportamentali, educative, produttive. Esistono già sul mercato dispositivi consumer che raccolgono dati cerebrali con l’obiettivo di monitorare concentrazione, stress o stati cognitivi. Fasce EEG indossabili che promettono di migliorare la produttività, auricolari che misurano la prontezza mentale, occhiali che segnalano distrazioni. In alcuni contesti, questi strumenti sono stati introdotti in ambito lavorativo per valutare l’attenzione del personale, o in ambito scolastico per monitorare il rendimento cognitivo degli studenti.

 

La promessa, in apparenza innocua, è quella di aumentare il benessere o l’efficienza. Ma ciò che queste tecnologie misurano non sono semplici parametri fisici: sono correlati neurali di emozioni, intenzioni, motivazioni. Informazioni che, anche se (almeno per ora) non decifrano il contenuto dei pensieri, possono rivelare molto sullo stato mentale di una persona. Ed è proprio qui che il rischio cambia natura. Se i dati cerebrali raccolti da un dispositivo di consumo vengono analizzati, archiviati, venduti o utilizzati per prendere decisioni – per selezionare candidati, indirizzare messaggi pubblicitari, profilare comportamenti – allora la neurotech diventa uno strumento di accesso alla mente, non più finalizzato alla cura.

 

Inoltre, vi è di più che la capacità di leggere l’attività cerebrale. Sempre più dispositivi neurotecnologici non si limitano a osservare, ma sono progettati per intervenire. È la logica del feedback neurale: l’interfaccia registra, interpreta e risponde. Le attuali tecniche di stimolazione cerebrale profonda rappresentano una versione clinica e mirata di questa logica, ma nei laboratori si sperimentano già configurazioni capaci di modulare in tempo reale stati cognitivi o affettivi. Negli animali, è stato possibile indurre decisioni motorie tramite stimolazioni selettive. In alcuni esperimenti, sono stati alterati schemi di apprendimento o risposte emotive, dimostrando che l’azione sul cervello non si limita a sopprimere sintomi patologici, ma può modificare il modo in cui un organismo percepisce, valuta, sceglie. In prospettiva, un’interfaccia capace non solo di decodificare ma anche di fornire stimoli mirati sulla base dell’attività rilevata apre uno scenario del tutto nuovo: una tecnologia che, invece di ascoltare o correggere passivamente, partecipa attivamente al funzionamento mentale. In campo clinico, questo potrebbe significare dispositivi in grado di stabilizzare stati d’ansia, migliorare la memoria, prevenire ricadute depressive. Ma lo stesso principio, applicato fuori dal contesto medico, rischia di spostare il baricentro: dalla misurazione alla modulazione del comportamento. La possibilità di influenzare attenzione, motivazione o reattività senza passare dalla coscienza del soggetto introduce una variabile etica radicale. Non si tratta solo di sapere cosa una persona pensa o prova, ma di incidere – direttamente – su quel pensiero, su quella sensazione, su quella predisposizione all’azione.

 

Alcuni segnali normativi hanno cominciato ad affrontare questa ambiguità. In California, è stata approvata una legge che riconosce esplicitamente i dati cerebrali come categoria sensibile, e vieta l’uso non autorizzato di segnali neurali da parte di aziende o piattaforme. A livello internazionale, l’UNESCO ha elaborato un quadro etico che definisce la mente come spazio da proteggere, esortando gli Stati a impedire che neurotecnologie non terapeutiche vengano applicate su minori o in ambito lavorativo. Si tratta di primi tentativi di affrontare un problema che finora è rimasto ai margini del dibattito pubblico.

 

Emerge intanto un futuro in cui strumenti neurotecnologici diventano gradualmente parte dell’ambiente quotidiano, non come protesi invasive, ma come accessori indossabili, software, servizi. E in cui, senza accorgercene, potremmo accettare che l’attività mentale venga misurata e interpretata come una qualunque altra funzione fisiologica.

 

La linea che separa uso clinico e uso commerciale è labile. Dipende da chi sviluppa queste tecnologie, da chi le finanzia, da come vengono regolate. Ed è proprio in questa zona grigia che si giocherà la vera posta in gioco della neurotech nei prossimi anni. La questione non è solo se le macchine ci leggeranno la mente. È se decideremo di concedere quella lettura in cambio di promesse di benessere o produttività, e con quali condizioni – considerato quello che già cediamo ogni giorno anche solo semplicemente per accedere ai social forum o al nostro conto in banca.

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