Google creative commons
Cattivi scienziati
L'IA che scioglie la plastica. Ecco l'enzima che “digerisce” il poliuretano
Un algoritmo della Chinese Academy of Sciences ha scoperto un enzima capace di degradare una delle plastiche più resistenti al mondo. Non un’intelligenza artificiale che scrive, ma una che fa ricerca scientifica, accelerando la scoperta di soluzioni per il riciclo e la sostenibilità
Un lavoro pubblicato su Science da un gruppo della Chinese Academy of Sciences mostra un modo molto diverso di usare l’intelligenza artificiale da quello a cui ci hanno abituato i modelli linguistici come ChatGPT. Qui l’IA non serve a scrivere, a rispondere o a imitare l’uomo, ma a esplorare un problema reale di chimica e biotecnologia: trovare un enzima capace di degradare un tipo di plastica praticamente indistruttibile, il poliuretano. È una forma di intelligenza artificiale “classica”, basata sull’analisi automatica di dati sperimentali e sulla previsione di proprietà molecolari, che ha il compito di formulare ipotesi testabili in laboratorio.
Il poliuretano è un materiale molto comune, presente in spugne, vernici, isolanti e schiume rigide. È formato da catene di molecole unite da legami uretanici, molto resistenti al calore e ai solventi. Queste stesse proprietà che lo rendono utile nell’industria, lo rendono quasi impossibile da riciclare: a differenza delle “termoplastiche” come il PET, non può essere fuso e rimodellato, perché i legami chimici che ne costituiscono la struttura reticolare sono permanenti. Le tecniche chimiche di riciclo, come la glicolisi, riescono solo a parzialmente rompere la struttura, lasciando un residuo che deve essere comunque smaltito. Per questo, gran parte del poliuretano prodotto nel mondo finisce ancora oggi in discarica o viene incenerito. L’obiettivo dei ricercatori era individuare un enzima, cioè una proteina naturale capace di accelerare reazioni chimiche, che riuscisse a spezzare i legami uretanici e trasformare la plastica in molecole riutilizzabili. Gli enzimi noti non bastano: la loro ricerca, avanzando per tentativi alla cieca, sarebbe lentissima e non necessariamente coronata da successo. Gli autori hanno quindi impiegato un modello di apprendimento automatico chiamato GRASE (Graph Neural Network Recommendation of Active and Stable Enzymes), costruito per analizzare enormi banche dati di proteine (anche inesistenti in natura) e predire quali abbiano le caratteristiche strutturali giuste per funzionare in un certo ambiente.
GRASE non è un modello linguistico: non “capisce” parole, ma rappresenta ogni proteina come un grafo, cioè come una rete di nodi e connessioni. Ogni nodo corrisponde a un amminoacido, e ogni connessione rappresenta un legame chimico o un’interazione spaziale. Il modello impara dalle proteine già conosciute quali configurazioni tridimensionali rendono un enzima attivo o stabile in certe condizioni di temperatura, pH e solvente. Poi applica ciò che ha imparato a sequenze nuove, calcolando per ciascuna una probabilità di successo. È un apprendimento supervisionato nel senso più stretto: non genera nulla di nuovo, ma riconosce schemi, valuta possibilità e le ordina per affidabilità. Nel caso del poliuretano, l’algoritmo è stato addestrato su migliaia di enzimi noti per attività simili — esterasi, lipasi, cutinasi — e poi ha analizzato migliaia di proteine candidate, molte delle quali provenienti da batteri ambientali. Il suo compito era individuare quelle che, secondo il modello, avessero la struttura più compatibile con la rottura dei legami uretanici e che potessero restare attive in presenza dei solventi necessari al processo industriale di glicolisi. Su questa base, l’IA ha ridotto lo spazio di ricerca da migliaia di candidati a poche decine.
Tra questi, gli esperimenti di laboratorio hanno identificato un enzima particolarmente efficace, chiamato AbPURase. Pur essendo classificato come un’esterasi — quindi non specificamente progettato per tagliare legami uretanici — AbPURase ha mostrato una capacità inaspettata di depolimerizzare il poliuretano. In scala di laboratorio, ha demolito una schiuma poliuretanica commerciale con un’efficienza del 95 % in otto ore e del 98 % in dodici. Le analisi strutturali hanno poi chiarito perché: l’enzima possiede un nucleo interno molto compatto e idrofobico, che ne stabilizza la forma, e una piccola ansa (“loop”) irrigidita da un amminoacido, la prolina, che evita deformazioni quando l’enzima opera in solventi aggressivi. È un caso in cui la funzione osservata conferma perfettamente la previsione del modello. La differenza con l’IA generativa è sostanziale. Un modello come ChatGPT predice la parola successiva in base a miliardi di esempi linguistici; GRASE predice invece la probabilità che una struttura molecolare sia stabile e attiva in certe condizioni. Il primo è un sistema di imitazione statistica, il secondo un sistema di inferenza scientifica. La generazione di testo non richiede verifica sperimentale, mentre l’apprendimento usato qui si completa solo nel laboratorio, quando le previsioni vengono confermate o smentite dai dati. L’intelligenza artificiale, in questo caso, diventa un’estensione del metodo sperimentale: riduce lo spazio delle possibilità e indica dove è più promettente cercare.
Il risultato non è solo la scoperta di un enzima utile per riciclare plastiche complesse, ma la dimostrazione di un nuovo modo di fare ricerca. In un campo come la biotecnologia, dove la combinazione di variabili è quasi infinita, questo significa accelerare di ordini di grandezza la velocità con cui si possono trovare soluzioni reali. È anche un esempio di come la biologia stia entrando in una nuova fase, in cui la conoscenza delle forme e delle sequenze si integra con la capacità predittiva dei modelli matematici. Le proteine possono essere considerate oggetti geometrici complessi, e i grafi permettono di tradurre questa geometria in numeri che l’algoritmo può manipolare. L’IA “vede” nella struttura ciò che l’occhio umano fatica a cogliere, e il laboratorio verifica se quella visione corrisponde alla realtà chimica.
Se l’esperimento industriale confermerà i risultati ottenuti in scala ridotta, il metodo potrà essere applicato ad altri polimeri e ad altri problemi di sostenibilità. Ma il punto più importante resta metodologico: non siamo di fronte a una macchina che imita il linguaggio, bensì a uno strumento che estende la nostra capacità di esplorare la materia. Ed è probabilmente fra quelli destinati a cambiare più profondamente la ricerca scientifica nei prossimi anni.
il nostro rapporto con la tecnologia
Così l'AI ci fa dire addio alla serendipità
Cattivi scienziati